Da ieri sono in vigore in larga parte del territorio indiano una serie di misure straordinarie per contrastare l’avanzata del coronavirus.
Appellandosi agli esecutivi locali, in ottemperanza all’assetto federale della Repubblica indiana, il primo ministro Narendra Modi giovedì scorso ha invitato la popolazione a una quarantena diffusa, lasciando alle autorità statali l’onere di introdurre restrizioni alla libertà personale fino al 31 marzo.
Mentre scriviamo, il divieto di assembramenti interessa 80 distretti in tutto il paese, comprese le principali metropoli: foto surreali di viali deserti a New Delhi, Mumbai e Kolkata da ore stanno facendo il giro della rete. Stop a tutti i trasporti interni e ai voli commerciali verso l’esterno, mentre i confini statali e nazionali sono stati di fatto chiusi, salvo per il passaggio di personale autorizzato.
L’idea di fondo dovrebbe essere quella di sigillare il paese nella speranza di isolare il più possibile un contagio interno che, stando ai dati diffusi dal governo, al momento appare ancora piuttosto contenuto.
Secondo il ministero della salute, i contagiati confermati sono al momento meno di 400, con solo sette vittime. Un dato che sarebbe incoraggiante, rapportato a una popolazione complessiva di 1,3 miliardi di persone, ma che incrociato con il numero di test effettuati deve essere decisamente ridimensionato.
Al 21 marzo scorso, l’India aveva effettuato meno di quindicimila tamponi: troppo pochi per avere una stima realistica della diffusione del virus e, di conseguenza, poter misurare in futuro l’efficacia di questa settimana abbondante di lockdown. Come indicato dall’Organizzazione mondiale della Sanità, la sola quarantena non basterà.
Nel messaggio alla nazione della scorsa settimana, Modi si era limitato a richiamare in modo molto evocativo – seppur generico – il senso di responsabilità collettiva di cui il paese necessita per sconfiggere il virus, senza dare spiegazioni dettagliate su cosa l’apparato statale avrebbe fatto per partecipare allo sforzo collettivo.
Pentole e rumore su invito di Modi, foto Ap
Tra le varie indicazioni, il primo ministro ha invitato a cinque minuti di applausi e rumore – pentole e piatti di metallo – per sostenere gli sforzi del personale sanitario nazionale.
Evento piuttosto partecipato, stando ai racconti di chi risiede in India, e ugualmente criticato sui social network da detrattori del governo. L’accusa: alla sanità pubblica indiana – tra le peggiori al mondo – non servono applausi ma fondi, personale e macchinari all’avanguardia.
In attesa di capire se la curva del contagio si inerpicherà anche nel subcontinente, gli osservatori già si preoccupano per il contraccolpo che la paralisi delle attività produttive avrà sullo stato dell’economia nazionale.
Il governo centrale ha istituito una task force, guidata dalla ministra delle finanze Nirmala Sitharaman, per formulare una ricetta nazionale in grado di far fronte a una crisi economica annunciata. Ma per ora, come per le misure di lockdown, l’iniziativa è stata lasciata ai governi locali.
Alla spicciolata, gli esecutivi locali hanno annunciato la distribuzione forfettaria di due (Karnataka) o tre (Odisha) mesi di razioni di cibo agli aventi diritto, aumento delle pensioni per anziani e disabili (New Delhi), trasferimento di mille rupie (meno di 12 euro, ndr) nei conti correnti di 350mila lavoratori giornalieri (Uttar Pradesh).
Segnali non abbastanza incoraggianti per tenere a galla i mercati: il BSE Sensex – indice della borsa di Mumbai – è stato sospeso a 45 minuti dall’apertura, dopo aver perso il 10%.
[Pubblicato su il manifesto]