Covid-19 e il modello taiwanese

In Asia Orientale, Cina, Economia, Politica e Società by Redazione

Le strategie del governo taiwanese per contrastare la diffusione del Coronavirus sono state al centro dell’attenzione mediatica nelle scorse settimane. Secondo le statistiche ufficiali, al 24 aprile Taiwan ha avuto un totale di 426 casi di COVID-19, circa 2 contagiati ogni 100.000 abitanti e 6 morti. Si tratta di numeri bassissimi in particolare considerando la prossimità con le Repubblica popolare cinese e i grandi flussi tra i due paesi. 
Secondo fonti taiwanesi già del 31 dicembre le autorità sanitarie di Taiwan avevano compreso la gravità della situazione a Wuhan. Diverse ricostruzioni fanno risalire ai giorni immediatamente successivi al Natale le prime comunicazioni riguardanti un virus respiratorio nella città di Wuhan.

Per comprendere la tempestiva azione di Taipei e l’immediata presa di coscienza della diffusione del COVID-19 in Cina, bisogna approfondire le relazioni sino taiwanesi. Relazioni che sono immancabilmente descritte dalla stampa occidentale come pessime. Tuttavia, se dal punto di visto politico i rapporti tra Taipei e Pechino sono ad oggi inesistenti e la pressione della Repubblica popolare cinese sulla proiezione internazionale di Taiwan è sempre più forte, le relazioni commerciali tra i due paesi sono molto intense. Più di un milione di cittadini taiwanesi, alcune stime parlano di due milioni, vivono e lavorano nella Repubblica popolare cinese. Sono flussi migratori iniziati nel 1987 quando Chiang Ching-kuo (蒋经国) e Lee Teng-hui (李登輝) decidono di autorizzare i viaggi da Taiwan alla Cina, per permettere ai veterani giunti nell’isola con il Kmt di visitare per l’ultima volta i propri familiari. Gli anziani reduci, ormai ottantenni, viaggiano spesso accompagnati dai figli quarantenni. Una volta superata la delusione per le condizioni socioeconomiche del paese, i taiwanesi comprendono immediatamente le grandi potenzialità dell’economia socialista di mercato promossa da Deng Xiaoping. Gli imprenditori taiwanesi sfruttano le possibilità di una mano d’opera a bassissimo costo, il forte legame culturale, linguistico e talvolta parentale e la vicinanza geografica. In pochi mesi migliaia di piccole e medie imprese taiwanesi iniziano a operare nella Repubblica Popolare cinese, esportando gli efficienti modelli di produzione delle PMI di Taiwan, generando anche un importante trasferimento tecnologico.

Nei successivi decenni centinaia di aziende taiwanesi iniziano a produrre nella Repubblica popolare cinese, generando un enorme flusso di merci ma anche di persone. I matrimoni misti, nella stragrande maggioranza uomini taiwanesi che sposano donne cinesi, sono frequenti e nonostante l’aumento del costo del lavoro in Cina, i tentativi di Taipei di incentivare il ritorno delle aziende nell’isola o di spostare la produzione negli altri paesi della regione -Southbound Policy e New Southbound Policy- la vicinanza culturale tra i due paesi resta un incredibile attrattore per gli imprenditori taiwanesi. Taipei mantiene molte barriere verso i flussi dalla Cina, nei momenti di distensione tra lo Stretto gli scambi di studenti e i flussi turistici sono stati notevoli ma la presenza di residenti cinesi nell’isola è praticamente inesistente, soprattutto per le restrizioni taiwanesi. Durante i trent’anni di intensi flussi verso la Cina, la comunità taiwanese ha sviluppato stretti rapporti personali, professionali e culturali, con l’altra sponda dello Stretto. Se Pechino mantiene alta l’attenzione sugli sviluppi politici, militari ma anche industriali e tecnologici nell’isola anche il governo taiwanese può contare su un canale privilegiato per l’osservazione delle vicende cinesi.

Per tutte queste ragioni Taiwan è un privilegiato punto di osservazione della Repubblica popolare cinese, una piattaforma culturalmente vicina ma decisamente lontana per ovvi motivi politici dal raggio di azione e di influenza di Pechino. Probabilmente nessun paese ha informazione così tempestive e complete sulle vicende cinesi, né il Giappone né la Corea del Sud e neanche gli Stati Uniti d’America. Quindi il fatto che l’allarme lanciato da Taiwan sulla diffusione di una infezione polmonare a Wuhan non sia stato ascoltato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) resta un importante interpretazione per la comprensione della serie di eventi che ha determinato la diffusione dell’epidemia. Le dinamiche tra l’OMS e Taiwan sono state ampiamente trattate dalla stampa nazionale e internazionale e si tratta di un tassello nella complessa e intricate rete di relazioni che regolano i rapporti tra Rpc, Taiwan e gli Stati Uniti.

Il governo taiwanese ha affermato che l’esclusione di Taiwan dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha avuto delle importanti ricadute sulla diffusione del virus, secondo Taipei la presenza taiwanese all’interno dell’agenzia della Nazioni Unite avrebbe potuto garantire una immediata risposta alla pandemia. Si tratta di una legittima rivendicazione ma l’esclusione di Taiwan dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata proprio il principale motivo dietro la pronta reazione nell’isola. Nei mesi immediatamente successivi allo scoppio della SARS – nel 2003 –  è stata istituita a Taiwan una struttura designata per gestire le emergenze epidemiologiche, il National Health Command Center (Nhcc). E’ un centro operativo permanente, collegato con le strutture sanitarie del paese, che ha l’obiettivo di coordinare azioni di prevenzione e contenimento in caso di grandi epidemie. Soprattutto il centro è stato ideato per diventare una cabina di regia nazionale e gestire tutte le fasi dell’emergenza dalla comunicazione, alle strategie e le rispettive implementazioni sino al coordinamento con i diversi ministeri. Una struttura operativa per emergenze epidemiologiche ma soprattutto per gestire in maniera rapida i processi decisionali. In pratica il National Health Command Center gestisce una serie di strutture già esistenti tra cui il Central Epidemic Command Center (CECC), il Biological Pathogen Disaster Command Center, il Counter-Bioterrorism Command Center e il Central Medical Emergency Operations Center. Ognuna di queste strutture ha continuato ad operare in maniera autonoma e indipendente durante questi anni. E’ stata ideata una procedura di emergenza per garantire l’immediata operatività, il Nhcc dispone di fondi già stanziati che possono essere impiegati in maniera rapida nei confronti di una di queste strutture.

In questo articolo per una rivista scientifica gli autori spiegano in maniera dettagliata le azioni intraprese dalle istituzioni taiwanesi, dimostrando come la tempestività nella risposta durante le prime settimane sia stata decisiva.

Lo scarno comunicato ufficiale del governo taiwanese non fornisce ulteriori informazioni rispetto alla segnalazione alla OMS nelle ultime settimane di dicembre 2019. Tuttavia, la presenza di personale medico taiwanese nei voli da Wuhan a Taipei per monitorare la temperatura dei viaggiatori sin dal 31 dicembre 2019, primo giorno dell’allarme lanciato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sembra suggerire che Taipei era a conoscenza dell’emergenza in corso. I passeggeri con sintomi febbrili e con deficit respiratori provenienti dalla Cina sono stati messi in quarantena casalinga sin dal primo gennaio 2020, ognuno dei pazienti era monitorato da un medico in remoto. Dal 5 gennaio 2020 tutti i cittadini taiwanesi che avevano viaggiato a Wuhan nelle precedenti due settimane sono stati contattati da personale medico e alcuni sono stati sottoposti a test per diversi virus. Alcuni dei pazienti non mostravano segni di miglioramento e furono sottoposti a ulteriori test. Già dal 9 gennaio le strutture sanitarie taiwanesi avevano individuato almeno 4 pazienti con una forma di coronavirus sconosciuta sino a quel momento. Quando il 20 gennaio il numero dei casi di sospette polmoniti in Cina aumentò, il Taiwan Centers for Disease Control (CDC) ha ufficialmente attivato il Central Epidemic Command Center (CECC), che da quel momento ha gestito tutte le fasi dell’emergenza.

L’analisi dei big data è stata fondamentale, sono stati confrontati gli ingressi nel paese sin dalle ultime settimane di dicembre e messi a confronto con il database del sistema sanitario nazionale. Ogni caso riconducibile a una sindrome respiratoria veniva immediatamente segnalato e monitorato, mentre tutti i cittadini che si erano recati a Wuhan e nell’Hubei sono stati testati. La scansione del codice Quick Response (QR), che combina lo storico dei viaggi del paziente e la cartella clinica, ha permesso una rapida identificazione dei casi sospetti. Si tratta una forzatura rispetto alle libertà personali, entrambi i database sono stati usati per fini molto diversi dalle ragioni per cui quei dati erano stati raccolti. Tuttavia, confrontando l’uso dei dati personali fatto dal governo della Corea del Sud o della Cina le intrusioni nella privacy dei singoli cittadini appaiono di minore entità.

Tutte queste decisioni sono state prese in anticipo rispetto alle indicazioni della OMS, Taiwan sa di non poter contare sul supporto dell’agenzia delle Nazioni Unite e ha dovuto costruire una struttura in grado di intervenire tempestivamente in caso di emergenza. Il Central Epidemic Command Center ha gestito anche la comunicazione, un team di psicologi ha ideato una strategia per sensibilizzare la popolazione. Le linee guida sono state univoche e basate su pochi concetti, semplici e comprensibili. La comunicazione è avvenuta sia attraverso i media tradizionali sia con i social ma spesso le istituzioni hanno inviato degli sms su tutte le utenze attive nel paese. Nel caso delle quarantene, o dei casi sospetti, i singoli pazienti venivano inizialmente chiamati al cellulare mentre le successive comunicazioni avvenivano attraverso la rete fissa per monitorare gli eventuali spostamenti. La maggior parte delle visite mediche è avvenuta in modalità telematica, per evitare il contagio degli operatori sanitari, mentre eventuali ricoveri e visite in ospedale sono state effettuate in strutture appositamente ideate per limitare la diffusione del virus. C’è stata una grande attenzione ai singoli casi, analogamente a quanto avvenuto in Giappone gli sforzi sono stati tutti volti a individuare i cluster e in particolare gli individui fortemente infettivi. Sin dall’inizio c’è stata la forte convinzione che alcune persone erano in grado di infettare in maniera esponenzialmente maggiore rispetto alla norma. Quindi la ricerca della catena di contagio era fondamentale per risalire alla possibile trasmissione del virus. Il governo taiwanese ha stabilito un prezzo massimo per le mascherine nelle settimane immediatamente successive alla diffusione del virus. Ogni possessore di una tessera sanitaria ha potuto acquistare a un prezzo calmierato – circa 60 centesimi di euro per tre mascherine – le necessarie protezioni. Le mascherine potevano essere ritirate in farmacia oppure poteva essere richiesta la spedizione a domicilio, senza costi aggiuntivi.

Grande attenzione è stata data a tutte le persone presenti sull’isola, molti stranieri non possiedono la tessera sanitaria ed è stato concesso l’uso di un documento di identificazione, la IRC card, per richiedere le mascherine. Si tratta di un importante elemento, le dinamiche di diffusione del Covid-19 a Singapore sono l’esempio della necessità di inclusione di tutte le fasce sociale nelle strategie di prevenzione. La città stata aveva registrato inizialmente un ottimo successo nella lotta al virus, analogamente a quanto avvenuto a Hong Kong e Macao, ma sin da inizio aprile i contagi sono aumentati a causa della sistematica esclusione delle fasce più deboli dallo screening sanitario. Le migliaia di domestici, colf, cameriere e commessi sono stati il veicolo di una nuova ondata di contagi. I ceti più poveri, talvolta residenti non regolari nella “città del leone”, non hanno potuto contare su una rete di assistenza e al ritorno sul posto di lavoro hanno generato un ritorno del Covid-19 a Singapore. L’attenzione taiwanese è stata alta verso tutti gli aspetti legati alla comunicazione, il team di esperti che parla alla nazione si presenta sempre con la mascherina, così come i ministri e tutti gli altri membri del governo. La presidente Tsai Ing-wen appare quasi sempre senza mascherina, ma mai in compagnia di altre persone. Si tratta di una strategia programmata, per incentivare l’uso delle mascherine protettive e allo stesso tempo generare un messaggio di speranza attraverso la massima carica dello stato, mantenendo ben chiare le regole del distanziamento sociale.

I taiwanesi, come le altre popolazioni della regione, hanno subito lo shock psicologico della SARS e di altre pandemie negli anni seguenti ed erano stati sensibilizzati ai pericoli di un nemico invisibile come il Covid-19. Molto è stato detto anche sull’approccio confuciano, che predilige una identificazione del singolo nel gruppo e una propensione al sacrificio della libertà personali rispetto alle necessità della società. Si tratta di un’attitudine comune nei paesi della regione, che ha sicuramento incoraggiato una risposta collettiva essenziale di fronte alla minaccia della pandemia.

La risposta taiwanese resta comunque notevole, in particolare per il rispetto dei fondamenti democratici del paese. Le ragioni sono molteplici ma va considerato come la componente democratica possa essere considerata un elemento costituente della stessa identità nazionale taiwanese. Il processo di formulazione dell’identità taiwanese è passato nei secoli attraverso numerose interpretazioni, spesso forzate. Da un’isola popolata da selvaggi indegna della considerazione del Celeste Impero a luogo dove restaurare lo splendore della dinastia Ming minacciata dagli invasori mancesi. Da provincia minore dell’Impero Qing a primo laboratorio di colonizzazione guidato da un paese asiatico con l’occupazione giapponese. Con il Kmt nel secondo dopoguerra un territorio conteso che espande i propri, immaginari, confini geografici oltre ogni limite mentre viene attivato un singolare processo di colonizzazione all’inverso. Il percorso, unico nella regione, di transizione pacifica che passa per una riconfigurazione delle dinamiche identitarie per superare i vincoli geostrategici. L’inedito percorso, tutt’ora in corso, dell’identità nazionale pluralistica taiwanese è strettamente collegato all’identificazione con un sistema di valori legati al sistema democratico e alla libertà civili, rispetto a una appartenenza etnica o nazionalistica. Si tratta di un tentativo di eludere la dicotomia con la Rpc, una dinamica che elude l’identificazione con la cultura cinese per evidenziare la virtù politica dello stato. Una lettura polisemica che rifiuta il concetto di nazione etnica e determina un confine insormontabile rispetto alla Repubblica popolare cinese. Un distinguo che non può essere culturale, etnico o storico ma esclusivamente politico ossia “che concerne la natura dello Stato”.  Il “nazionalismo civico” taiwanese, che ha determinato il pieno rispetto delle libertà personali durante la gestione di Taipei dell’epidemia Covid-19, è dovuto proprio alla necessità di mantenere e preservare quella soglia di alterità rispetto alla Cina.

Di Stefano Pelaggi*

*Docente a Sapienza Università di Roma, ricercatore a Geopolitica.info