Riconoscimento facciale, video-sorveglianza, modelli predittivi, social credit, lettori cerebrali applicati ai lavoratori, grande spinta sui semiconduttori: tutti elementi che hanno trovato spazio sui media occidentali riguardo la corsa cinese verso l’intelligenza artificiale. Ma il piano è molto più ampio, perché Pechino non mira solo a diventare leader del mercato mondiale dell’intelligenza artificiale, la Cina ha già autorizzato l’uso delle prove derivanti da Ai nei tribunali — a Shanghai -, presto la introdurrà per predire proteste sociali e la inserirà nella vita di tutti i giorni dei suoi cittadini per quanto riguarda, burocrazia, sanità e lavoro.
Come riporta Samantha Hoffman in The Communist Party’s autonomic approach to managing state security (2018) “Nel settembre 2017, il Segretario del Partito Generale Xi Jinping ha sottolineato il concetto di automatizzazione della gestione sociale quando ha chiesto “una governance sociale più sistematica e innovativa”, sottolineando la necessità di migliorare la capacità di prevedere e prevenire i rischi per la sicurezza”. L’approccio di Xi include l’uso della tecnologia per aiutare ad automatizzare il processo di gestione sociale: la tecnologia, tuttavia, “è solo una parte di una versione dell’autoritarismo progettata dalla fine degli anni ’70, che incarna e applica l’ingegneria dei sistemi complessi”, scrive Hoffman.
Ma, andando nel concreto, quali sono i piani attuali cinesi sull’intelligenza artificiale? Il primo documento nel quale si fa un esplicito riferimento all’Ai è il Tredicesimo piano quinquennale per lo sviluppo strategico industriale cinese, in cui si specifica che tra i 69 impegni principali del periodo tra il 2016 e il 2020 ci sarà anche lo sviluppo di progetti Ai.
Il secondo documento è quello definito Internet Plus, una sorta di piano triennale — che dovrebbe concludersi quest’anno — ad hoc per l’intelligenza artificiale: lo scopo è sviluppare l’industria Ai in un motore capace di produrre centinaia di miliardi di yuan. Lo scopo del piano è portare la Cina a diventare una potenza digitale.
Il terzo documento è il Piano per lo sviluppo dell’industria robotica (2016–2020). In questo caso siamo di fronte a obiettivi ben precisi: lo scopo è creare entro il 2020 un sistema in grado di produrre 100mila robot industriali all’anno, portando la Cina al primato mondiale nel settore. Il quarto documento si chiama proprio Intelligenza artificiale 2.0 ed è affiancato da un quinto piano dal titolo Sviluppo di una nuova generazione di industrie per l’intelligenza artificiale.
Naturalmente la Cina prevede parecchi investimenti e ritorni in piani economici che ad ora arrivano fino al 2030. Lo scopo finale è superare gli Stati Uniti, sfruttando alcun centri di ricerca creati appositamente e sviluppando l’industria per la produzione dei semiconduttori, che in Cina ha avuto una ripresa proprio ultimamente dopo un periodo di difficoltà — benché Pechino a livello mondiale debba ancora rincorrere Samsung e altre aziende coreane e giapponesi -.
Dal punto di vista più mediatico, alcune applicazioni sono già diventate celebri, come SenseTime. Come ha scritto Il Sole 24 Ore, “creeata nel 2014 dal cinese Xiolan Xu, ha ideato una tecnologia per il riconoscimento facciale che è piaciuta così tanto da convincere Alibaba e altri investitori — tra cui la società cinese di e-commerce Suning.Com e il fondo statale di Singapore Temasek Holdings — a sottoscrivere un round serie C da 600 milioni di dollari”.
Analogamente, software di riconoscimento facciale sono già usati nella vita di tutti i giorni in Cina — come abbiamo scritto su eastwest.eu — così come i sistemi di videosorveglianza sempre più sofisticata e con il non nascosto scopo di «predire» eventuali crimini o, ancora, l’utilizzo di sistemi di lettura cerebrale applicati ai lavoratori.
Un altro aspetto rilevante dell’AI in Cina è costituito poi dall’utilizzo dei Big Data per quanto riguarda la regolazione dei comportamenti sociali, attraverso quel sistema di crediti sociali che su eastwest.eu abbiamo provato a spiegare in due puntate, attraverso le caratteristiche del piano e la sua eventuale applicazione.
Ma questo immenso piano per l’Intelligenza artificiale, se lancerà la Cina anche su quel mercato — e su un confronto dalla natura particolare con gli Usa per quanto riguarda i dati e il “capitalismo delle piattaforme” — quali conseguenze potrebbe avere dal punto di vista interno e dal punto di vista internazionale?
Uno studio intitolato Deciphering China’s AI Dream, pubblicato nel marzo di quest’anno dal Future of Humanity Insitute dell’Università di Oxford, fornisce alcuni spunti decisamente interessanti.
Dal punto di vista interno l’Ai è destinata ad aumentare il cosiddetto digital divide, finendo per favorire “i lavoratori altamente qualificati e la riduzione della domanda di lavoratori poco qualificati i cui posti di lavoro sarebbero più a rischio di essere automatizzati”. Questo “può ampliare molte delle divisioni nella società cinese, tra cui le disuguaglianze di reddito, la disuguaglianza di genere e quelle tra diverse zone di sviluppo interno”. Il fatto, poi, che il Consiglio di Stato affermi che l’intelligenza artificiale saprà anche svolgere un ruolo “insostituibile” “nel mantenere la stabilità sociale” è destinato a mutare per sempre il corpo burocratico e il suo rapporto con i cittadini. Alcuni studiosi parlano a questo proposito di “leninismo digitale”.
Lo studio prova a gettare lo sguardo anche oltre i confini nazionali cinesi: la corsa all’AI potrebbe infatti cambiare molti degli equilibri internazionali: “la strategia cinese (sull’Ai ndr) potrebbe innescare la competizione militare su nuove basi: in un evento organizzato dal Centro per una nuova sicurezza americana, l’ex vice segretario alla Difesa Bob Work e l’ex presidente esecutivo di Alphabet, Eric Schmidt, hanno entrambi chiesto al governo degli Stati Uniti di rispondere al piano nazionale cinese sulla Ai con una strategia propria”.
E non solo, perché parlando di sistemi politici, l’evoluzione cinese sull’Ai e il controllo sociale che potrebbe implicare come finalità “potrebbe anche influenzare chi si trova al centro dell’ordine economico internazionale: nel campo del governo sociale, lo sviluppo della Ai in Cina potrebbe fornire un modello di “autoritarismo robusto” che potrebbe attrarre altre nazioni”.
di Simone Pieranni
[Pubblicato su Eastwest]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.