Modelli economici dissonanti, rivalità geostrategiche, ambizioni tecnologiche concorrenziali. Nel braccio di ferro tra Cina e Stati Uniti, la difesa dei diritti umani è scivolata in fondo alla lista delle priorità americane. E’ giunta quindi come un fulmine a ciel sereno la richiesta di “sfratto” ricevuta da Amnesty International U.S.A, in procinto di spostare la propria sede newyorkese in un modesto grattacielo di Manhattan, conosciuto come Wall Street Plaza.
Proprio mentre la scorsa settimana l’organizzazione britannica si accingeva a firmare il nuovo contratto d’affitto, il proprietario dell’edificio – la holding hongkonghese della logistica e dei trasporti Orient Overseas – ha fatto dietrofront. Motivo? La casa madre – il gigantesco conglomerato marittimo di proprietà del governo cinese Cosco – avrebbe deciso di porre il veto all’offerta, considerando Amnesty International un inquilino poco consono per un’azienda di Stato cinese.
L’Ong – che non ha una sede permanente in Cina – si è distinta negli ultimi tempi per l’accesa critica contro la scarsa tutela della comunità transgender cinese e le politiche etniche discriminatorie messe in atto da Pechino nella regione islamica del Xinjiang.
“Avevamo in programma di firmare il contratto di locazione quando una settimana fa da Orient Overseas – il proprietario dell’immobile – ci hanno fatto sapere che i suoi capi si erano opposti”, ha dichiarato Robyn Shepherd, portavoce di Amnesty International U.S.A. Secondo Shepherd, fino a quel momento l’Ong ignorava l’esistenza di un collegamento diretto tra Cosco e il Wall Street Plaza, storico edificio di 33 piani inaugurato in Pine Street nel 1973. Da circa cinquant’anni il grattacielo è di proprietà di Orient Overseas Associates, sussidiaria di Orient Overseas Container Line, uno dei principali fornitori di servizi di trasporto e logistica di container a livello mondiale.
Nel 2017, Cosco Shipping ha acquisito Orient Overseas in un affare da 6,3 miliardi di dollari che ha reso l’azienda di Hong Kong uno dei maggiori operatori marittimi al mondo, nonché una delle più grandi società di spedizioni attive negli Stati Uniti. Come conseguenza dell’accordo, gli investimenti immobiliari di Orient – tra cui l’edificio in Pine Street – hanno cambiato proprietà, finendo in mani cinesi. E che mani.
Come ricorda il New York Times, che ha riportato per primo la notizia, rientrando tra le circa 100 SOEs amministrate direttamente dal governo centrale cinese, Cosco vede i propri alti funzionari venire nominati dal Partito comunista. Il suo presidente, Xu Lirong, già membro dell’Assemblea nazionale del popolo (il “parlamento cinese”), nel 2017 ha partecipato come delegato al 19 ° Congresso del Partito, il conclave che ogni cinque anni sancisce un ricambio della leadership comunista. Non è da meno il pedigree di Tung Chee-hwa, presidente di Orient Overseas, nominato nel 1997 primo leader di Hong Kong dopo il ritorno alla mainland. Al momento Tung ricopre, contestualmente, il ruolo di vicepresidente della Conferenza consultiva del popolo, il principale organo con funzioni consultive della Repubblica popolare.
Diritti umani a parte, non è la prima volta che Orient finisce al centro della querrelle tra Washington e Pechino. Proprio di recente, l’azienda con base nell’ex colonia britannica è stata costretta dal Dipartimento del Tesoro a rinunciare – dopo trent’anni – alla gestione del terminal container di Long Beach per motivi di “sicurezza nazionale”.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.