Cosa resta del #MeToo taiwanese, un anno dopo

In Economia, Politica e Società by Redazione

A dodici mesi di distanza dall’approvazione di un pacchetto di modifiche alle leggi sulla violenza di genere, restano ancora diverse questioni da risolvere

Un anno fa, al culmine del movimento #MeToo taiwanese, lo Yuan legislativo (l’organo legislativo taiwanese) approvava i “Tre Emendamenti”, un pacchetto di modifiche alle principali leggi che contrastano la violenza di genere a Taiwan, soprannominate “le tre leggi per l’uguaglianza di genere”. Cosa è cambiato da allora, e cosa resta del movimento?

Per capirlo occorre innanzitutto ripercorrere gli eventi attorno al movimento. A  fine aprile 2023 è uscita Wave Makers, una serie Netflix incentrata sulla campagna elettorale di un partito progressista taiwanese di fantasia che molti avevano identificato con il Democratic Progressive Party (DPP). La serie, che attraverso il personaggio di Ya-ching tratta approfonditamente il tema della violenza di genere negli ambienti politici, ha ispirato centinaia di vittime a parlare pubblicamente delle molestie sessuali subite, perlopiù sul luogo di lavoro.

La prima testimonianza diventata virale è stata quella di Chen Chien-jou, ex impiegata del DPP con una storia molto simile a quella di Ya-ching, ma senza lieto fine: diversamente dal personaggio di Wave Makers, Chen non aveva trovato alcun supporto per la sua denuncia all’interno del partito, finendo per lasciare la politica. Condividendo la sua storia, Chen ha coinvolto il DPP, al potere dal 2016, al centro di un enorme scandalo politico, che si è tuttavia presto allargato ad altri partiti e, col tempo, ad altri settori, travolgendo anche il mondo dell’intrattenimento, della cultura e dello sport.

L’opinione pubblica ha reagito fortemente e le principali associazioni femministe taiwanesi si sono immediatamente mobilitate per chiedere una risposta istituzionale ai temi sollevati dal movimento. La risposta non si è fatta attendere: il 31 luglio 2023, lo Yuan legislativo ha approvato i Tre Emendamenti.

Le modifiche, entrate in vigore nella simbolica data dell’8 marzo scorso, hanno principalmente ampliato il ventaglio di dinamiche tutelate dalla legge, per esempio facendo rientrare le molestie agite da soggetti terzi, e non solo da colleghi o superiori, tra i reati coperti dal Gender Equality Employment Act, la legge per l’uguaglianza di genere sul posto di lavoro. Altre modifiche includono l’estensione della finestra temporale per denunciare, e l’istituzione del reato di molestia sessuale tramite abuso di potere (權勢性騷擾), che codifica lo squilibrio di potere tra vittima e aggressore come aggravante.

Nonostante sia presto per valutare l’efficacia di queste misure, i dati diffusi dalle principali organizzazioni femministe taiwanesi suggeriscono che il movimento abbia quantomeno contribuito a sensibilizzare la società taiwanese. L’associazione Garden of Hope, per esempio, ha dichiarato che tra maggio e dicembre 2023 ha preso in carico tra il doppio e il triplo del volume di casi di violenza di genere ricevuti nell’intero 2022. La Modern Women’s Foundation, invece, a luglio 2023 registrava un numero di richieste di interventi formativi sulla violenza di genere da parte di aziende private circa sei volte superiore ai livelli pre-movimento #MeToo. Il volume di richieste, seppur rallentando, si è mantenuto alto anche nell’anno nuovo: a fine marzo, l’aumento di richieste dall’inizio del movimento si attestava ancora intorno al 280%.

Più di recente, questa tendenza ha trovato conferma nell’insolitamente cospicua inclusione di istanze femministe all’interno del movimento Bluebird, la mobilitazione popolare esplosa a fine maggio scorso contro una legge promossa da Kuomintang (KMT) e Taiwan’s People Party (TPP) che rafforzerebbe i poteri dello Yuan legislativo. Organo che, tra l’altro, anche durante la nuova amministrazione di Lai Ching-te si conferma un ottimo sponsor del progresso verso la parità di genere in atto a Taiwan: al momento, le donne rappresentano il 41.59% del parlamento, una percentuale lievemente in calo rispetto alla legislatura precedente, ma comunque ben superiore alla media mondiale del 26.7%.

La composizione dell’esecutivo di Lai, tuttavia, dipinge un quadro meno roseo: su quattordici ministri con portafoglio, solo tre sono donne. Questo numero non è il solo dato a invitare alla cautela: durante il summit organizzato dalla National Alliance of Taiwan Women’s Associations per il primo anniversario del #MeToo, voci autorevoli del femminismo taiwanese come Annette Lu e Fan Yun hanno ricordato la natura culturale della violenza di genere, sottolineando anche come le leggi, per quanto sofisticate, non si potranno applicare pienamente finché continueranno a scarseggiare le risorse a disposizione delle vittime e delle associazioni che intendono assisterle. 

Un altro dato scoraggiante riguarda la mancanza di conseguenze per la maggior parte degli uomini accusati nell’ambito del #MeToo. Un caso eclatante riguarda Chen Hsueh-sheng, il parlamentare finito a processo per aver molestato la parlamentare DPP Fan Yun. Malgrado la statura istituzionale della vittima e l’innegabilità del fatto, avvenuto davanti agli altri parlamentari durante una seduta dello Yuan legislativo, Chen se l’è cavata con una multa e, fresco di rielezione, rimane uno dei politici di punta del KMT.  

A prescindere dall’esito dei singoli casi, tuttavia, c’è una caratteristica che accomuna l’intero movimento: la sua singolare longevità mediatica. Ad un anno dal suo incipit, la conversazione attorno al #MeToo rimane piuttosto vivace, alimentata sia dall’emersione di nuovi casi, che dagli aggiornamenti circa i risvolti giudiziari di quelli più vecchi. Questo suggerisce che il movimento, seppur ridimensionato, non accenna a spegnersi; o meglio, nelle parole di Fan Yun, resta “incompiuto”.

Di Beatrice Scali