Il New York Times ha ricevuto e pubblicato un riassunto e una parte di circa 400 pagine di documenti nei quali emergerebbe un piano di detenzioni di massa da parte del governo cinese della minoranza uigura e più in generale nei confronti della popolazione musulmana dello Xinjiang e non solo.
I Xinjiang Papers sembrerebbero quindi confermare le testimonianze e alcuni report di ong, che denunciano da tempo la repressione del governo contro gli uiguri e l’esistenza di campi-carcere che conterrebbero un milione di persone: si tratta di lavori come quello di Adrian Zenz basati su documenti ufficiali o report di organizzazioni umanitarie che hanno raccolto testimonianze. Materiale e report che le Nazioni Unite hanno definito «credibile».
Il tema dunque è particolarmente scottante, e di recente il governo americano ha spinto per una condanna internazionale dell’operato cinese nella regione, nel gioco scontato di impensierire un rivale con il quale è in corso uno scontro commerciale e tecnologico.
Al momento il New York Times ha fornito un riassunto e alcuni estratti dei documenti, traducendone solo uno in inglese. In futuro altri saranno tradotti e rilasciati e potranno così aumentare le conoscenze sulla mole di informazioni in possesso del quotidiano.
Di cosa parliamo
Il Xinjiang è una regione autonoma nel nord occidentale cinese e la più grande divisione amministrativa del paese. E’ abitato in maggioranza dalla popolazione turcofona e musulmana degli uiguri.
La regione – un tempo cuore della via della seta e territorio che, prima della sua islamizzazione, era stato solcato da popolazioni nomadiche di religioni differenti – è strategica per Pechino in quanto confinante con otto stati (Mongolia, Russia, Kazhakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la parte di Kashmir amministrata dall’India) e per le sue risorse.
La zona è da tempo sottoposta a iniziative da parte dello stato centrale: anni fa fu lanciata la campagna Go West, un modo come un altro per incentivare gli imprenditori ad avviare attività nella regione, con la speranza che l’aumento del tenore di vita spegnesse istanze autonomiste; secondo gli uiguri, in realtà questo sviluppo è stato solo a vantaggio della popolazione han, l’etnia maggioritaria del paese, che via via è diventata una parte sempre più consistente della regione.
Poi, a seguito di attentati, sono cominciate le direttive di natura più securitaria: si tratta di documenti pubblici, emessi dal governo centrale. Fino ad arrivare alle accuse nei confronti del Pcc di aver trasformato la regione in una immensa prigione, a seguito di arresti di massa in campi- carcere.
La Cina – che di recente ha pubblicato un libro bianco sulla regione – si è sempre difesa sostenendo che si tratta di «campi di rieducazione», dovuti alla minaccia terroristica. Luoghi di grande serenità che mirano a una riqualificazione delle persone arrestate.
Pechino inoltre, non ha mai negato l’esistenza dei campi, né le politiche di controllo effettuati nella regione (come testimoniano i documenti sulle tante stazioni di polizia presenti in alcuni città) ma ha sempre negato un piano sistematico indirizzato a detenzioni di massa.
Prima di entrare nel dettaglio, già il leak è importante
I Xinjiang Papers sono stati consegnati al quotidiano americano da un funzionario cinese che naturalmente ha chiesto l’anonimato.
Si tratta di una mole documentale incredibile, formata per lo più da discorsi di Xi Jinping, di altri funzionari e direttive interne del Pcc.
Affidandoci alla professionalità dei reporter del Nyt e dando per scontate le immani verifiche sulla autenticità dei documenti, e prima di passare ad analizzare cosa c’è dentro, la sola dinamica e l’oggetto della documentazione ci fornisce già una chiave interpretativa.
I documenti potrebbero indicare che non tutto il Partito è compatto con la leadership. La fuoriuscita di documenti direttamente dal Pcc è sempre foriera di eventi, non sempre immediatamente leggibili: è quanto accadde – ad esempio – con le rivelazioni sulle ricchezze della famiglia dell’allora premier Wen Jiabao uscito anch’esso sul Nyt.
Lo scoop uscì nell’ottobre del 2012, guarda caso in prossimità del diciannovesimo congresso che pose Xi Jinping al vertice del partito e che – oggi lo possiamo dire, allora non si sapeva – pose il Partito in una direzione precisa: più intervento statale e meno privato, il contrario delle idee di Wen Jiabao e dei suoi protetti che avrebbe potuto piazzare in posizioni apicali; il report lo bruciò completamente.
Da tempo ci si chiede se esista un’opposizione interna al dominio di Xi Jinping: forse i Xinjiang Papers potrebbero essere l’evento capace di insinuare che qualcuno all’interno del Pcc non è in linea con Xi.
Le reazioni e il «movimento» eventuale di alcuni nomi, ad esempio dei funzionari responsabili in questo momento in Xinjiang, ci daranno le prime risposte.
Veniamo al dunque
Come abbiamo detto, la Cina nega gli arresti di massa: è questo l’elemento messo in discussione dai documenti in possesso del New York Times, in quanto risulterebbero tanti i quadri coinvolti in un piano all’interno del quale più volte viene menzionata la necessità di arresti numerosi.
L’insieme dei documenti, dunque, vuole suggerire una precisa intenzione di procedere alla «trasformazione», termine utilizzato da Xi Jinping in un discorso, della popolazione uigura della regione.
Non a caso, il primo documento di cui si parla è relativo alle istruzioni per «gestire» i giovani i cui genitori sono stati incarcerati.
I discorsi privati di Xi Jinping
Di Xi Jinping nei Papers apprendiamo discorsi privati e trascrizioni di interventi orali di cui altrimenti non avremmo mai avuto notizia.
Secondo i reporter del Nyt, i discorsi di Xi Jinping dimostrerebbero come il piano cinese sia partito dall’alto e non sia qualcosa sfuggito di mano a un inesperto funzionario locale.
Nei documenti sarebbero contenuti alcuni discorsi privati di Xi Jinping ai funzionari «poche settimane dopo che i militanti uiguri avevano pugnalato 150 persone in una stazione ferroviaria cinese, uccidendone 31» durante i quali Xi chiede una «lotta totale contro il terrorismo, l’infiltrazione e il separatismo» usando gli «strumenti della dittatura» e «senza nessuna pietà».
Non solo, perché «nel 2014, poco più di un anno dopo essere diventato presidente, Xi ha trascorso quattro giorni nella regione. L’ultimo giorno della sua permanenza, due militanti uiguri hanno organizzato un attentato suicida fuori da una stazione ferroviaria di Urumqi che ha ferito quasi 80 persone, una mortalmente». Xi Jinping usa parole dure: «Dobbiamo essere duri come loro, non avere nessuna pietà».
Ma i i discorsi non sono pochi e in alcuni, trascritti a seguito di una registrazione, Xi Jinping sembra essere più propenso a una gestione del problema capace di tutelare un equilibrio tra uiguri e han.
Ma a un certo punto pare cambiare il tono dei suoi interventi, pur non emettendo mai ordini diretti espliciti.
Si tratta di discorsi privati, nei quali Xi critica il potere della religione e ritiene il partito comunista capace di gestire al meglio una «guerra popolare».
Xi Jinping parla di rieducazione, di «trasformazione», e sottolinea più volte la necessità di contrastare il fenomeno «terroristico» sia con i più potenti strumenti tecnologici, sia affidandosi ai vecchi metodi cinesi, vicini di casa, amici, informatori, in pratica.
Xi Jinping inoltre si riferisce spesso al sud dello Xinjiang, dove vive il 90 per centro della popolazione musulmana della regione. Questa precisazione geografica sarà importante tra poco.
L’esecutore: Chen Quanguo
Un altro elemento molto interessante dei documenti è quello relativo al nuovo governatore della regione Chen Quanguo, precedentemente impiegato in Tibet. Con lui, benché molti articoli sul tema siano già usciti, arriva una svolta a livello di repressione.
Ma in questo caso, sapevamo che Chen aveva vistosamente aumentato l’apparto repressivo e di controllo della regione, attraverso check point, controlli costanti sulla popolazione, utilizzando ogni strumento come da indicazione di Xi, divieto di espatrio, prelievo di Dna. Ma non conoscevamo «cosa» Chen fosse solito dire ai suoi sottoposti.
Ad esempio nel 2017, in un discorso ai funzionari regionali Chen usa queste parole: «La lotta contro il terrorismo e la salvaguardia della stabilità è una guerra prolungata ed è anche una guerra di offesa».
O, ancora, ricorda che per raggiungere gli «obiettivi indicati da Xi» servono «competenze professionali, centri di formazione e trasformazione come esempio di buone pratiche».
Chen invitava inoltre i funzionari a non temere «le lamentele» delle «forze ostili» su quanto stava accadendo nella regione.
Nel febbraio 2017, «ha detto a migliaia di agenti di polizia e truppe in una vasta piazza di Urumqi» di prepararsi per una «offensiva devastante e distruttiva». Nelle settimane seguenti, i documenti indicano che la leadership decise di arrestare un gran numero di uiguri.
Nella parte su Chen, entra poi in scena Zhu Hailun, allora alto funzionario della sicurezza dello Xinjiang, che nel 2017 definisce gli attacchi terroristici in Gran Bretagna «un avvertimento e una lezione per noi».
Si tratta di un discorso nel quale Chen incolpa «l’eccessiva enfasi posta dal governo britannico sui “diritti umani al di sopra della sicurezza” e controlli inadeguati sulla propagazione dell’estremismo su Internet e nella società».
La caduta di Wang
Uno dei documenti più rilevanti dei Papers è quello che riguarda la caduta di un funzionario, Wang, a capo di una contea del sud del paese (come specificato da Xi Jinping era quella l’area su cui agire con primaria urgenza).
Wang viene arrestato perché cerca «di ammorbidire le politiche religiose del partito, dichiarando che non c’era nulla di sbagliato nell’avere un Corano in casa e incoraggiare i funzionari del partito a leggerlo per comprendere meglio le tradizioni uigure».
Eppure, quando erano iniziati gli arresti di massa, Wang «fece come gli era stato detto».
Avrebbe fatto costruire «due nuove strutture di detenzione tentacolari, di cui una grande quanto 50 campi da basket, e ha raccolto lì 20.000 persone».
Nel 2017 decide di aumentare drasticamente i finanziamenti per le forze di sicurezza, più che raddoppiando le spese per posti di blocco e sorveglianza a circa 180 milioni di dollari.
In privato, però, non era convinto: riteneva che quell’eccesso di repressione avrebbe scatenato problematiche a livello etnico, di complicata soluzione.
Ma Wang aveva un altro motivo. Wang era un funzionario che pensava di risolvere il problema uiguro sviluppando economicamente la regione. Per questo, temeva che le detenzioni di massa «avrebbero reso impossibile registrare i progressi economici di cui aveva bisogno per guadagnare una promozione. La leadership aveva fissato obiettivi per ridurre la povertà nel Xinjiang. Ma con così tanti residenti in età lavorativa inviati nei campi, Wang temeva che gli obiettivi sarebbero stati fuori portata, insieme alle sue speranze per un lavoro migliore».
Si era esposto, liberando oltre 7mila persone da un campo. Ed era stato arrestato.
La stessa sorte toccò ad altri, anche per molto meno: i funzionari uiguri «furono accusati di proteggere gli uiguri e Gu Wensheng, il capo han di un’altra contea del sud, fu incarcerato per aver tentato di rallentare le detenzioni».
Secondo i dati che emergono dai documenti, nel 2017, «il partito ha aperto oltre 12.000 indagini sui membri del partito nello Xinjiang per infrazioni nella “lotta contro il separatismo”, oltre 20 volte la cifra dell’anno precedente, secondo le statistiche ufficiali».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.