Se le stime ufficiali dovessero rivelarsi attendibili, l’epidemia che da gennaio paralizza la Cina è stata parzialmente domata. Mentre scriviamo, il numero giornaliero delle guarigioni ha superato il bilancio delle nuove infezioni. Segno che le controverse limitazioni su mobilità e trasporti introdotte dal governo potrebbero aver contribuito a contenere la diffusione del virus come sperato. Il prezzo da pagare in termini economici resta tuttavia oneroso, almeno nel primo trimestre dell’anno. Tutto o quasi dipenderà dalle tempistiche con cui le autorità provvederanno ad allentare le misure contenitive, che hanno coinciso con la pausa per il Capodanno lunare, quest’anno prolungata di 10 giorni.
Secondo proiezioni del New York Times, le restrizioni hanno coinvolto in misura variabile circa 760 milioni di persone, pari a oltre la metà della popolazione cinese, di cui 160 milioni impossibilitati a lasciare le proprie abitazioni senza il consenso del governo. L’area più compromessa comprende le province meridionali “export-oriented” e lo Hubei, di cui Wuhan, epicentro del contagio, è capoluogo. Una regione che vanta il prodotto interno lordo della Svezia (oltre 574 miliardi di dollari), e una crescita superiore alla media nazionale (7,8%) trainata dal settore secondario. Sede di prestigiose università e centri di ricerca, ha tutte le carte per diventare la culla del Made in China 2025, il piano industriale che dovrebbe rendere la Cina una potenza tecnologica entro il 2050. Ma ormai è tutto fermo. Nello Hubei le aziende potranno riprendere le attività non prima del 10 marzo.
In più occasioni il presidente Xi Jinping ha esternato la propria preoccupazione per le ricadute economiche e sociali della guerra contro il virus. Tanto più che il 2020 si preannuncia un anno cruciale per il gigante asiatico. Non solo perché, secondo quanto promesso da Xi, dovrebbe coincidere con il completo sradicamento della povertà assoluta nelle campagne. Entro il 2021, la leadership punta anche a raggiungere la cosiddetta “società moderatamente prospera” (xiaokang shehui), termine mutuato dai testi classici che implica un raddoppiamento del Pil nazionale e del reddito procapite rispetto ai valori del 2010. Un traguardo – da cui dipende la legittimità della leadership in carica – che gli esperti ritengono possa essere tagliato solo con un tasso di crescita di almeno il 5,6%. Meno del “circa 6%” fissato provvisoriamente dal governo a dicembre, prima che l’epidemia paralizzasse il paese. Il parlamento avrebbe dovuto rilasciare le statistiche ufficiali a inizio marzo, ma le difficoltà logistiche causate dal contagio hanno indotto Pechino a posticipare la sessione plenaria a data da destinarsi. Secondo Song Xiaowu, ex presidente del think tank statale China Society of Economic Reform, il tasso di crescita potrebbe scendere al 3% nel primo trimestre e al 5% per l’intero anno.
Mentre c’è chi cerca suggerimenti nel biennio della Sars (2002-2003), gli analisti sono piuttosto concordi nel ritenere che il nuovo virus avrà un effetto più destabilizzante tanto entro i confini nazionali quanto all’estero. Colpa del peso maggiore esercitato dai consumi interni sull’economia cinese (oltre il 60% del Pil) nonché del ruolo sempre più preponderante che il paese ricopre nella filiera globale.
Stando ai dati preliminari, l’epidemia colpirà soprattutto le pmi (che impiegano l’80% della forza lavoro) e governi locali, già vessati dal debito accumulato nell’ultimo decennio per difendere la crescita dalla crisi finanziaria internazionale. Secondo un sondaggio condotto congiuntamente dalla Tsinghua e dalla Peking University, solo il 34% delle piccole e medie imprese intervistate sarà in grado di sopravvivere un mese con l’attuale flusso di cassa. Compagnie aeree, turismo, immobiliare e automotive mostrano già il fiato corto. Quest’anno il numero dei viaggi effettuati dai cittadini durante il Chunyun – il periodo di migrazione di 40 giorni che coincide con il Capodanno lunare – è precipitato del 45% su base annua e, secondo la China Tourism Academy, nel 2020, il settore turistico potrebbe perdere ben 168 miliardi di dollari a causa del virus.
Ma il calo dei trasferimenti ha implicazioni ben più ampie. Basta pensare che a una settimana dalla fine delle vacanze, almeno due terzi dei 300 milioni di lavoratori migranti non erano ancora tornati al lavoro lasciando fabbriche cinesi e straniere a corto di manodopera. Con il risultato che quasi l’80% delle aziende manifatturiere interpellate giorni fa dalla Camera di commercio americana a Shanghai ha riferito di non essere in grado di gestire le proprie linee di produzione. Apple – che in Cina assembla la maggior parte degli iPhone – si appresta a rivedere le previsioni per il primo trimestre, mentre Foxconn, il principale contractor locale, pronostica ricadute sul bilancio dell’intero 2020.
Morgan Stanley stima che le attività produttive torneranno al 60-80% della loro capacità solo a metà marzo. Ora il pericolo è che il virus acceleri quel processo di decoupling avviato dalla trade war con gli States. Le ripercussioni si preannunciano globali. Infatti, se il calo della domanda interna rischia di far deragliare “l’accordo di fase uno” con cui Pechino ha promesso l’acquisto di merci e servizi statunitensi per 200 miliardi di dollari in due anni, secondo Phil Hogan, commissario europeo per il commercio, l’epidemia non solo sta spingendo le imprese del Vecchio Continente a delocalizzare la produzione oltre la Muraglia. Sta anche ritardando i negoziati per il trattato bilaterale di investimento che Cina e Ue sperano di concludere prima del vertice di Leipzig in programma per settembre. Persino il progetto commerciale e infrastrutturale a guida cinese Belt and Road Initiative (a cui l’Italia ha aderito lo scorso marzo) verte in una fase di stallo a causa del blocco di voli e spedizioni dalla Cina.
Con un occhio al debito, il governo comunista stronca le richieste di stimoli promettendo in cambio misure chirurgiche: taglio dei principali tassi di riferimento sui prestiti, riduzioni dei contributi pensionistici, sgravi fiscali, prestiti agevolati a famiglie e pmi, oltre a soluzioni creative come i “virus control bond”, obbligazioni a basso costo pensate per finanziare progetti complementari alla guerra contro il virus. L’impronta statalista del sistema cinese permette di smuovere risorse con una rapidità inimmaginabile alle nostre latitudini. Su ordine del Consiglio di Stato, le aree più determinanti per la crescita – come Zhejiang, Guangdong, Jiangsu e la municipalità di Shanghai – hanno già provveduto ad allentare le restrizioni sulla mobilità. Ma, secondo l’ambasciatore cinese in Italia, occorrerà “aspettare marzo per vedere i primi risultati”. Se la Sars è davvero di insegnamento, l’economia cinese reagirà con un colpo di reni. La crescita a due cifre è un ricordo lontano. Ma questi giorni di crisi hanno già avviato una sperimentazione senza precedenti, dal remote work a un potenziamento del riconoscimento facciale a prova di mascherina. D’altronde fu proprio nell’annus horribilis 2003 che Alibaba lanciò Taobao, oggi il più grande sito di e-commerce al mondo.
[Pubblicato su Federmanager]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.