Il 23 gennaio la rivista Sanlian Zhoukan ha pubblicato un reportage nel quale si denunciava la carenza di posti letto e medici nell’ospedale di Wuhan a seguito di un numero altissimo di persone con la febbre giunte nella struttura.
Il racconto è analogo a tanti altri che possono trovarsi sui media cinesi, prima che l’esistenza del coronavirus fosse ufficializzata alla popolazione cinese. Dai resoconti dei reporter emerge una situazione drammatica, con l’aggiunta di una preoccupazione dovuta alla difficoltà dei medici di fare fronte alle tante domande dei pazienti, nonché importanti inchieste sulle tempistiche utilizzate dal governo locale e centrale per dare conto alla popolazione dell’esistenza del virus.
Alcuni di questi reportage sono poi stati eliminati dal web, ma non tutti. Caixin, Caijing, Xinjing Bao, e tanti altri sono i media che hanno saputo confermare la propria fama di magazine in grado di produrre quello che viene definito «giornalismo critico». In parallelo si è assistito anche al proliferare di video e «reportage» effettuati da singole persone sui social media, quanto in Cina si chiama zi meiti, che hanno permesso di «bucare» le comunicazioni ufficiali e farsi un’idea precisa di quanto stesse realmente accadendo soprattutto nelle zone calde dell’epidemia di coronavirus, ovvero la regione dell’Hubei dove si trova Wuhan la città dalla quale avrebbe avuto origine il virus.
In questa situazione d’emergenza stiamo assistendo dunque a un’insolita rilassatezza nella censura cinese, tanto più su un tema particolarmente sensibile come quello sanitario. Sul Los Angeles Times, Sarah Cook ha infatti ricordato che tutto quanto riguarda la salute pubblica è tra i principali argomenti censurati dalla macchina propagandistica di Pechino.
Nel suo articolo, però, Cook riscontrerebbe questa tendenza anche nella crisi del coronavirus, ipotesi smentita da numerosi reportage ancora disponibili in rete.
Questi varchi nella macchina censoria cinese, del resto, non dovrebbe sorprenderci perché in realtà – analizzando il fenomeno in modo più approfondito – conferma alcune tendenze in corso da tempo in Cina: innanzitutto la censura è volutamente arbitraria e imprevedibile; inoltre, il «giornalismo critico» gestisce il suo rapporto con il potere in modo tale da permettersi alcuni momenti che potremmo definire di «eccezione».
Per quanto riguarda il primo aspetto, non siamo di fronte a una novità: già in altri momenti il Pcc ha lasciato varchi all’interno della censura perché alcune «critiche» potessero diventare virali. Ovviamente si tratta di post negativi nei confronti dei funzionari locali, di cui il Pcc si serve per legittimare poi alcune decisioni drastiche, come il recente licenziamento di centinaia di «quadri» di partito nella regione dell’Hubei.
Ugualmente il meccanismo funziona con il giornalismo di inchiesta: il Partito da un lato ha bisogno di capire quali sono davvero i problemi emersi in zone dove il suo controllo è mediato, spesso in modo equivoco, dai funzionari locali. Ma soprattutto, come sottolinea Maria Repnikova, autrice di Media Politics in China: Improvising Power Under Authoritarianism «anche con Xi Jinping, il governo è sensibile alle pressioni dal basso verso l’alto della popolazione: il loro bisogno di sapere, le loro richieste di responsabilità. Proprio Repnikova, che nel suo libro ricorda anche l’importante ruolo di «cinghia di trasmissione» tra governo e diverse forme di attivismo sociale, svolto dai giornalisti cinesi, riscontra in un articolo sul New York Times che l’autoritarismo può essere considerato una sorta di «madre della creatività», perché «gli sforzi della Cina di guidare, smorzare o controllare i media hanno prodotto fonti di notizie alternative che sottilmente, indirettamente, limitano le restrizioni. E questo, dalle autorità è tollerato, almeno fino a un certo punto».
L’equilibrismo dei giornalisti d’inchiesta cinesi è un altro aspetto da non sottovalutare: ben sapendo di poter incorrere nella censura (benché media commerciali, in ogni redazione c’è l’ufficio della propaganda) utilizzano stili asciutti e soluzioni «creative» per esporre il proprio punto di vista critico. Repnikova al proposito sottolinea che «un approccio popolare è quello di velare le critiche con storie sulla sofferenza individuale. Un’intervista commovente con un medico brutalmente attaccato dal parente di un paziente deceduto per polmonite virale non dà la colpa a nessuno in particolare; rivela il caos e la disperazione a livello di base della gestione delle crisi».
Un altro «trucco» è l’utilizzo di esperti: «dato l’alto rispetto per gli studiosi nella società cinese» utilizzare le loro parole è un modo come un altro per preservare il proprio reportage da improvvise mannaie censorie. Almeno per qualche giorno.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.