Corea del Sud – Un’informazione parzialmente libera

In by Simone

Viaggo nei media coreani, dove l’informazione è piegata ai voleri del governo di Lee Myung-back. La mano della politica sulla stampa ha fatto declassare Seul da Paese "libero" a "parzialmente libero" in termini di informazione. I giornalisti non ci stanno, e scioperano in massa.
Gli ultimi giornalisti sudcoreani in ordine di tempo a posare microfoni e taccuini sono stati quelli dalla Yonhap. Assieme ad altri lavoratori della principale agenzia giornalistica del Paese, contestano la nomina a un secondo mandato per il presidente della società, Park Jung-chan.

Sotto l’attuale dirigenza non è stata garantita un’informazione equilibrata. Molti articoli sono stati distorti per compiacere il governo”, ha detto un leader sindacale che ha preferito restare anonimo all’agenzia France Presse. L’ultimo sciopero risale al 1989, e anche allora al centro della protesta fu la governance dell’agenzia. Ora il comunicato sindacale chiede perdono per “l’autoritratto distorto”, che i reporter denunciano di aver dovuto impacchettare per l’esecutivo guidato dal presidente Lee Myung-back.

Secondo le organizzazioni dei lavoratori, Park avrebbe cercato di censurare lo scandalo dell’intrusione informatica nel sito della commissione elettorale nazionale lo scorso 26 ottobre, durante il voto per le municipali di Seul, vinto dal candidato liberale, Park Won-soon, contro l’esponente del partito conservatore di Lee. O ancora avrebbe fatto passare sotto silenzio il caso di una villa nel sud della capitale di proprietà del presidente ma intestata al figlio.

Prima dei reporter della Yonhap erano stati i giornalisti di tre emittenti televisive pubbliche a scegliere la strada della protesta per denunciare quella che considerano una politica editoriale eccessivamente schiacciata sulle posizioni dell’esecutivo. A fine febbraio avevano incrociato le braccia circa 200 giornalisti della Kbs, chiedendo le dimissioni del presidente dell’emittente, Kim In-kyo eil ritiro dei provvedimenti disciplinari contro i leader di una protesta simile lo scorso mese di luglio.

Nelle stesse settimane sono entrati in sciopero anche i lavoratori del canale YTN, finanziato con soldi pubblici e il cui amministratore delegato è nominato da un’agenzia governativa. Ancora prima, il 30 gennaio, era iniziata la protesta a oltranza dei lavoratori dell’emittente MBC.

Anche in questo caso la motivazione era sempre la stessa: le direttive arrivate al presidente Kim Jae-chul direttamente dalla Casa Blu. La reazione della società non si fatta attendere. Il 27 febbraio i lavoratori in sciopero sono stati precettati e otto leader sindacali licenziati, otto sospesi e 16 dipendenti denunciati per aver interrotto gli affari. Decisioni che hanno portato 166 giornalisti a rassegnare le dimissioni per protesta.

Le rimostranze sono tornate di attualità quando manca poco meno di un mese alle elezioni generali di metà aprile e nell’anno delle presidenziali fissate a dicembre.

Nel 2009, per ampliare l’offerta televisiva, il parlamento a maggioranza conservatrice autorizzò i principali quotidiani, tutti vicini alle posizioni del governo, a possedere canali generalisti. Una proposta all’epoca contestata dai lavoratori delle tre emittenti. Ma già quattro anni fa uno dei primi atti di Lee non appena insediato fu mettere i mezzi d’informazione pubblici sotto il controllo diretto o indiretto del governo, ha scritto il Korean Times.

Il presidente della Kbs fu consigliere sui media del capo di Stato, mentre il capo della MBC, pur venendo da uno schieramento opposto a quello di Lee, deve il suo incarico all’allontanamento dell’80 per cento di giornalisti o direttori dei programmi considerati di sinistra. “Lee deve risolvere il problema che lui stesso a creato e sostituire i presidenti dei canali con figure più neutrali”, continua il Korea Times.

Anche per queste decisioni l’anno scorso l’organizzazione Freedom House ha retrocesso la Corea del Sud da Paese “libero” a “parzialmente libero” per quanto riguarda l’informazione. Il dato riguarda soprattutto la censura dei contenuti online considerati antinazionali e vicini alle posizioni della Corea del Nord.

Ma un ruolo nel declassamento di quello che un tempo era considerato uno dei sistemi più liberi di tutta l’Asia, si legge nel rapporto dell’organizzazione statunitense, l’ha giocato proprio la politica sui media di Lee.

[Foto credit: online.wsj.com]