Un’email sconvolge la routine di Kim Ki-yong. Lui è una spia nordcoreana da vent’anni a Seul dove ormai ha messo su famiglia e un business. Ha ventiquattro ore di tempo per tornare al Nord. China Files recensisce L’impero delle luci di Kim Young-ha, tradotto in Italia da Metropoli d’Asia.
La storia di Kim Ki-yong è quella del passato che ritorna. Un passato che a cavallo del 38esimo parallelo è doppio. È quello del protagonista ed è quello delle due Coree ultimo avamposto di un tempo che ormai è per tutti andato: la Guerra Fredda.
La trama dell’Impero delle luci (edizioni Metropoli d’Asia, pp.300, 16,30 euro) di Kim Young-ha, prende il via da un’email. Un messaggio di posta elettronica con un indecifrabile haiku del poeta giapponese Matsuo Basho che, come scrive il traduttore Andrea De Benedittis, basta a infrangere l’illusione di un’apparente normalità.
La routine della vita di Kim è quella di un importatore di film, sposato con una figlia. Il messaggio lo riporta alla realtà. Lui è una spia nordcoreana, mandata al Sud vent’anni prima, di fatto abbandonato dal regime che anni dopo con quell’email in codice gli ordina di tornare al Nord.
Entro ventiquattro ore. Il tempo in cui Kim medita sul da farsi, non escludendo l’ipotesi che una volta tornato al Nord possa essere ucciso per qualche motivo ignoto, e ricorda. Ricorda la giovinezza all’ombra della dinastia dei Kim, l’arruolamento come spia e i corsi per imparare a essere sudcoreano e poi l’immersione nella vita a Sud, da straniero in patria.
“Il contrasto che stride di più è quello tra le due Coree, tra due Paesi divisi dalle strade ciniche che la Storia a volte imbocca e che, in quest’angolo di mondo, hanno lasciato una profonda cicatrice fisica e ideologica: il 38esimo parallelo”, si legge nella postfazione. Il libro è il racconto di almeno tre Coree: quella del Nord e le due del Sud, quella ancora guidata da un governo autoritario degli anni Ottanta del secolo scorso e quella di oggi. È una storia di spie e delle donne che fanno parte della vita del protagonista -per prime la moglie e la figlia- figure forti e determinate.
Ma è anche la vicenda dei profughi nordcoreani, “comunità sempre più numerosa e complessa”. Quei rifugiati e disertori cui sono destinate scuole per imparare a vivere nel mondo capitalista, ancora di recente saliti alla ribalta per l’arresto del trentaduenne Yoo Woo-sung, accusato di essere in realtà una spia di Pyongyang.
Un caso che ha gettato un’ombra di sospetto sui 25mila nordcoreani fuggiti al Sud. Yoo è il quattordicesimo nordcoreano in cinque anni fermato per questo genere di accuse. Ed è sicuramente la figura di maggior spicco perché impegnato in visite a scuole e collegi per raccontare la propria frustrazione nel vivere sotto il regime di Pyongyang e per essere stato uno dei principali promotori dell’idea della riunificazione.
Un orizzonte verso cui in Corea del Sud cresce l’indifferenza come ha documentato Tania Branigan del Guardian. Soprattutto tra le giovani generazioni. Nel 1994 il 92 per cento dei sudcoreani considerava necessaria la riunificazione, nel 2007 erano scesi al 64 per cento. Una necessità sentita nel 2010 da appena il 49 per cento dei ventenni, contro il 67 per cento di chi aveva più di cinquant’anni.
L’obiettivo unificazione conta ancora molto sul sentimento nazionalistico dei coreani di entrambe le metà della penisola. Quello stesso nazionalismo che nel libro si dice al Nord potrebbe resistere alla caduta della dinastia dei Kim con la loro l’ideologia del juche e dell’autosufficienza e che al Sud, secondo alcune analisi, basa l’identità nazionale anche sullo sviluppo capitalistico. Il divario nei decenni si è intanto allargato. E non è soltanto economico.
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