Il Parlamento ha approvato la messa in stato d’accusa della presidente, cui viene contestato di aver violato la Costituzione permettendo alla sua confidente Choi Soon-sil di pilotare l’azione di governo; di aver spinto i grandi gruppi a fare donazioni a organizzazioni no profit di facciata; di aver diffuso informazioni confidenziali; e di essersi mostrata negligente e assente quando nel 2014 affondò il traghetto Sewol, incidente che fece 300 vittime. L’ultima parola spetterà alla Corte Costituzionale.Un boato tra i manifestanti riuniti davanti al Parlamento ha accolto il voto di venerdì scorso con cui i deputati hanno approvato la mozione di impeachment per la presidente Park Geun-hye. La sospensione che potrebbe portare alla destituzione è anche conseguenza delle proteste che nelle ultime settimane hanno visto ogni weekend milioni di sudcoreani chiederne le dimissioni. La presidente è accusata di aver lasciato che Choi Soon-sil, una sorta di sciamana e amica di lunga data di Park, si occupasse degli affari di Stato senza averne titolo. Choi avrebbe influenzato la presidente, fino ad esercitare pressioni sulle aziende nazionali per «donazioni» a organizzazioni no profit di facciata.
I poteri sono stati trasferiti a interim al primo ministro Hwang Kyo-ahn, in carica soltanto da poche settimane, cioè da quando Park ha provato a placare con un rimpasto il malcontento per le rivelazioni sull’influenza esercitata dalla «Raspuntin coreana». L’ultima parola sul futuro della presidenza Park spetterà però alla Corte Costituzionale, che avrà 180 giorni di tempo per esprimersi. Nell’unico precedente, nel 2004, i giudici si espressero a favore dell’allora capo di Stato, Roh Moo-hyun, reintegrato nell’incarico dopo 63 giorni. I nove giudici costituzionali in carica sono conservatori. Affinché si arrivi alla destituzione di Park servirà il voto favorevole di almeno sei di essi. In caso contrario Park tornerà in carica benché la sua popolarità sia ai minimi, la più bassa tra i presidenti sudcoreani dalla fine degli anni Ottanta, quando il Paese si affacciò alla democrazia.
Non è però escluso che la forza delle proteste influenzi la decisione dei giudici (è favorevole all’impeachment il 75 per cento della popolazione), così come avvenuto in Parlamento. Parte del Seanuri, il partito conservatore che detiene la maggioranza e che già aveva chiesto a Park di lasciare il prossimo aprile, si è schierato contro la presidente permettendo di superare, con 234 voti favorevoli su 300, la soglia necessaria a far partire la procedura d’impeachement. D’altronde dopo essersi diretti verso il Parlamento e il palazzo presidenziali, i dimostranti oggi hanno preso la via della Corte Suprema.
Secondo un commento del Korea Times, per la destituzione potrebbe bastare prendere in considerazione soltanto alcune delle accuse nei confronti di Park. Alla presidente viene contestato di aver violato la Costituzione permettendo a Choi e ai sui soci di pilotare l’azione di governo; di aver spinto i grandi gruppi a fare donazioni; di aver diffuso informazioni confidenziali (come i discorsi ufficiali passati in rassegna dalla sciamana); e di essersi mostrata negligente e assente quando nel 2014 affondò il traghetto Sewol, incidente che fece 300 vittime in maggioranza studenti in gita. Proprio questo disastro contribuì a rompere il rapporto tra i cittadini e la prima donna eletta alla Casa Blu. Nelle ultime settimane è emerso che la presidente, un’ora e mezzo dopo la tragedia, era intenta a rifarsi la messa in piega. Circostanza soltanto in parte smentita. Ancora prima era stata avanzata l’ipotesi che si trovasse assieme assieme a Choi intenta in qualche rito sciamanico.
Qualora i giudici si esprimessero a favore dell’impeachment, Park perderebbe l’immunità e potrebbe tra l’altro trovarsi coinvolta in accuse di corruzione. Ma lo scandalo va ben oltre la figura della leader conservatrice. Tocca infatti alcuni tra i principali gruppi industriali del Paese, su tutti Samsung e Hyundai, i cui vertici la scorsa settimana sono stati ascoltati dai parlamentari cui hanno dovuto rendere conto delle «donazioni» effettuate su pressioni di Choi.
La destituzione aprirebbe inoltre la strada a elezioni, da convocare entro 60 giorni dalla sentenza della Corte. Uno scenario tutto da verificare in particolare per i modi. Il favorito alla successione è il segretario generale uscente delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, una figura che a detta di alcuni analisti mancherebbe del carisma necessario, ma il cui non-interventismo nella vicenda nordcoreana potrebbe essere gradito a Pechino.
Il regime di Pyongyang è il convitato di pietra della crisi. Quando fu eletta, Park si impegnò a instaurare un rapporto con Pyongyang basato sulla fiducia. Nei fatti nulla è stato portato avanti in concreto. Al contrario, i test nucleari condotti sotto la leadership di Kim Jong-un e le conseguenti sanzioni, sia internazionali sia unilaterali da parte di Seul, hanno ulteriormente allargato le distanze tra le due Coree, che ad agosto dello scorso anno sono arrivate a un passo da uno scontro armato vero e proprio.
Gli altri due possibili candidati alla successione sono l’avvocato e attivista per i diritti civili Moon Jae-in del Partito democratico, sfidante di Park nel 2012, e il centrista Ah Cheol-soo. Entrambi sono più morbidi verso il regime nordcoreano e critici sul dispiegamento in Corea del Sud del sistema anti-missile statunitense Thaad, ufficialmente pensato come difesa contro eventuali attacchi nordcoreani, ma mal visto da Pechino.
Una quarta scelta, emersa nelle ultime settimane potrebbe essere Lee Jae-myung, sindaco di Seongnam, una città non distante dalla capitale, chiamato dai sostenitori il «Trump sudcoreano». Nei sondaggi d’opinione è terzo dietro a Ban e Moon. Si schiera contro l’ineguaglianze, dice di voler combattere il cartello dell’establishment e promette cambiamenti nelle politiche verso i grandi gruppi industriali che dominano la quarta economia dell’Asia.
[Scritto per il Fatto quotidiano online]