I centinaia di morti negli scontri tra cittadini e polizia del 1960, quando il dittatore Syngman Rhee proclamò l’ennesima legge marziale. I carri armati nelle strade di Seoul, inviati da Park Chung-hee nel 1972 per portare a termine un altro colpo di Stato e conferirsi poteri assoluti. L’invasione di tutte le più grandi città del Paese del 17 maggio 1980, quando il generale Chun Doo-hwan realizzò l’ennesimo golpe che aprì sette anni di pugno di ferro. In pochi giorni ci furono 2700 arresti, tra cui 26 leader politici, e un imprecisato numero di morti: 165 secondo la polizia, tra i 600 e i 2300 secondo diversi studi. Quasi tutti nella città di Gwangju, dove le forze armate furono inviate a schiacciare la resistenza civile dei cittadini.
Fatti come questi sono la base della memoria storica recente della Corea del Sud, una costellazione tragica di eventi drammatici in cui alcuni uomini forti hanno esercitato la forza contro una popolazione abituata a combattere per un futuro migliore. Si trattava di ferite rimarginate nel lungo processo di democratizzazione aperto nel 1987 e che nel giro di poco più di 30 anni ha portato Seoul a diventare un esempio di democrazia liberale in Asia orientale. La città è diventata portatrice anche di un potente soft power per la sua fiorente industria dell’intrattenimento e la sua proposta culturale, che hanno portato in pochi anni il primo premio Oscar come miglior film a una pellicola non in lingua inglese – Parasite – e il premio Nobel per la Letteratura alla scrittrice Han Kang. In uno dei suoi romanzi più celebri, Atti umani, Han ha affrontato proprio il tema della strage di Gwangju, la sua città natale.
Con queste premesse, è difficile esagerare la portata drammatica di quanto accaduto nella notte tra martedì 3 e mercoledì 4 dicembre, quando il presidente Yoon Suk-yeol ha dichiarato la tredicesima legge marziale della storia della Corea del Sud, la prima da quella del 1980 e da quando il Paese è una democrazia. Il provvedimento è durato solo sei ore circa, ma le conseguenze di un atto scellerato e abnorme si faranno sentire molto più a lungo sul corpo di una democrazia ancora giovane, ma che ha dimostrato di essere assai resistente. La reazione è stata, fortunatamente, immediata. E dire che in un primo momento, molti erano convinti si trattasse di una fake news, quanto ormai si ha fiducia nelle istituzioni democratiche.
Persino Lee Jae-myung, leader del Partito democratico d’opposizione e rivale sconfitto di misura da Yoon alle presidenziali del 2022, ha affermato alla Cnn di essere convinto che i video della conferenza stampa improvvisa del presidente fossero dei deep fake realizzati con l’intelligenza artificiale. Yoon ha fatto la sua mossa alle dieci e mezza di sera, quando molte persone stavano già andando a letto. Una decisione, dice, obbligata per “proteggere il Paese dalle forze comuniste nordcoreane”. Il riferimento non è a infiltrati del regime di Kim Jong-un, ma all’opposizione democratica che a dire di Yoon “ha paralizzato il governo” trasformando il parlamento “in un rifugio per criminali che cerca di paralizzare il sistema amministrativo-giudiziario e di rovesciare il nostro ordine democratico liberale”.
La paralisi di cui parla Yoon è dettata dalla vittoria schiacciante del Partito democratico alle elezioni legislative dello scorso aprile, che gli hanno dato una maggioranza schiacciante all’Assemblea nazionale. Numeri che hanno consentito a Lee di bloccare una serie di manovre del presidente, tra cui la legge di bilancio, chiedendo maggiori provvedimenti a favore delle classi sociali più deboli. Tra i “criminali”, secondo Yoon, ci sarebbe lo stesso Lee, che nei mesi scorsi è scampato prima a un mandato d’arresto per corruzione (che lui ritiene parte di una manovra politica del presidente, ex procuratore di giustizia) e poi a un accoltellamento non letale durante un comizio.
Insomma, Pyongyang non c’entra nulla e Yoon, frustrato da un’amministrazione tutta sulla difensiva, ha deciso di sovvertire le istituzioni democratiche che dovrebbe proteggere. Alla base anche il desiderio di mettere fine allo stillicidio di richieste di inchieste speciali contro sua moglie, Kim Keon-hee, coinvolta in diverse indagini tra cui una per aver accettato in regalo una lussuosa borsa Dior da un controverso predicatore che si presentava come interlocutore sulle politiche inter-coreane. Secondo quanto sta emergendo negli ultimi giorni, peraltro, non si sarebbe trattato di una mossa improvvisa. Anzi, secondo un leak di intelligence finito in mano all’opposizione tramite un presunto whistleblower, circolerebbe un documento che dimostrerebbe che tutto era stato già preparato a novembre.
Emergerebbe anche l’ipotesi di una possibile crisi indotta con la Corea del Nord, con l’invio di droni militari oltre il sempre più agitato confine in corrispondenza della zona demilitarizzata. Una figura centrale pare essere Kim Yong-hyun, nominato ministro della Difesa solo pochi mesi fa da Yoon, di cui è un grande amico sin dai tempi in cui erano compagni di liceo. Kim, iper falco su Pyongyang, avrebbe suggerito l’imposizione della legge marziale, ordinando peraltro anche l’arresto dei leader dell’opposizione e il presidio della commissione elettorale.
A partire dalle 11 di sera del 3 dicembre, era entrato in vigore un decreto che predisponeva la creazione di un comando militare preposto a mettere in atto la legge marziale. Fuorilegge qualsiasi attività politica, comprese quelle dell’Assemblea nazionale e ogni forma di protesta o assembramento. Media ed editori vengono posti sotto controllo, mentre si prevede la possibilità di procedere ad arresti anche senza mandato. Quando in tv si vedono gli elicotteri planare sopra l’Assemblea nazionale, trovano già migliaia di persone a protestare davanti all’edificio. Nel frattempo, 190 dei 300 parlamentari sono riusciti a entrare per votare all’unanimità la richiesta di revoca della legge marziale. Ce la fanno, nonostante l’irruzione di centinaia di soldati che cercano di bloccarli. Ce la fanno anche grazie ai cittadini che fanno da scudo al parlamento, consentendo l’esercizio democratico di un’istituzione simbolo della separazione dei poteri. Le truppe sono costrette a ritirarsi e dopo qualche ora Yoon cede, accettando come impone la costituzione la richiesta di revoca avanzata dal parlamento.
Non si tratta, però, della fine della crisi. Anzi, la sensazione è che ci si trovi solamente all’inizio. Se nelle prime ore, società civile e politica avevano dato una risposta compatta e univoca, nei giorni successivi si è invece creata una frattura. Nonostante la gravità di quanto accaduto, il Partito del potere popolare di Yoon ha deciso di boicottare il voto sull’impeachment, che lo avrebbe immediatamente privato dei suoi poteri in attesa di una sentenza di conferma della Corte costituzionale. Eppure, lo stesso leader del partito, Han Dong-hoon, ha definito Yoon un “pericolo”, non escludendo “nuove azioni estreme” qualora resti al suo posto.
Tradotto: una nuova legge marziale. Solo uno dei 108 deputati della forza di governo è rimasto al suo posto per votare sull’impeachment. Altri due sono rientrati a qualche minuto di distanza. Ne sarebbero serviti altri cinque per raggiungere il quorum. Gli altri 105 non l’hanno mai fatto, e lunedì 9 dicembre i loro volti hanno riempito la prima pagina del quotidiano progressista Hankyoreh. Le oltre 150 mila persone che hanno letteralmente invaso Seoul per chiedere la destituzione del presidente e la protezione della democrazia l’hanno vissuta come un tradimento.
Per provare a tranquillizzare l’opinione pubblica e guadagnare tempo, il partito di maggioranza ha, di fatto, commissariato Yoon. In una controversa conferenza stampa domenicale, il premier Han Duck-soo e il leader del partito di governo Han Dong-hoon hanno infatti annunciato di averlo messo sotto tutela. “Non prenderà più parte agli affari di stato, politica estera inclusa“, ha detto il premier, che ha prospettato un’uscita di scena ordinata per Yoon, senza però specificare le tempistiche delle sue dimissioni.
L’opposizione sostiene che si tratti di un secondo golpe, visto che non esistono norme costituzionali che prevedono il passaggio dei poteri presidenziali a un leader di partito. L’obiettivo del partito del presidente sembra quello di gestire le tempistiche della crisi, evitando l’impeachment ed elezioni anticipate, che consentirebbero a Lee di candidarsi. Il leader dell’opposizione è stato condannato qualche mese fa in primo grado per dichiarazioni false rese durante la campagna elettorale del 2022. In caso di condanna in appello non potrebbe ricandidarsi. Una possibile spada di Damocle sulle speranze di Lee, se le elezioni si svolgessero come previsto nel 2027. Ma probabilmente anche se si anticipasse al 2026, che potrebbe essere l’orizzonte del Partito del potere popolare, che già propone un gabinetto condiviso per una riforma costituzionale che abbasserebbe il mandato presidenziale da 5 a 4 anni, rimuovendo il vincolo del mandato singolo.
Al di là del caso giudiziario legato a Lee, appare assai improbabile che la società civile accetti un’attesa tanto lunga. Le strade delle città sudcoreane sono riempite ogni sera dai manifestanti che, come nel 2016 e 2017, hanno sfoderato le candele, simbolo della resistenza civile contro la ex presidente Park Geun-hye, poi costretta all’impeachment a causa di uno scandalo di corruzione. Insieme alla rabbia e allo choc per la riapertura di una ferita che si pensava chiusa per sempre, c’è anche musica e i bastoncini luminosi tipici dei concerti K-Pop amati dai giovanissimi e della giovanissime, presenti davvero in massa durante le manifestazioni di Seoul.
I sindacati, simbolo della democratizzazione sudcoreana, hanno proclamato uno sciopero generale a scaglioni, che coinvolge diverse categorie e che proseguirà fino a quando Yoon non si dimetterà o non sarà rimosso. La pressione pare destinata ad aumentare. Il caso Park dovrebbe insegnare, e quanto accaduto allora era nulla in confronto alla gravità delle azioni di Yoon, che è indagato per tradimento, insurrezione e abuso di potere. Gli inquirenti gli hanno impedito viaggi all’estero, mentre l’ex ministro della Difesa e suo delfino è stato arrestato dopo che si vociferava di un suo piano di fuga verso il Giappone. Mercoledì 11 dicembre approda in aula una seconda procedura di impeachment, su cui si voterà già sabato 14 dicembre.
Appare probabile che si vada al muro contro muro, col Partito democratico che valuta la possibilità di chiedere la dissoluzione del Partito del potere popolare per l’accusa di tradimento.
Mentre la politica litiga, la società civile continua e continuerà a fare sentire la sua voce. L’inflazionato paragone con i fatti del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill non regge. In Corea del Sud i cittadini sono entrati in azione, sì, ma per proteggere la democrazia che hanno contribuito a costruire col loro sangue. E che hanno mostrato di non avere paura a difendere.
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.