Qual è il luogo confine tra «noi» e «loro»? Appunti di viaggio in Iran, dove Oriente, Occidente, religioni e culture si incontrano, si mescolano, si contraddicono: dalla civiltà dell’acqua, alla concezione di Dio (o della sua assenza). Il paesaggio tra Tehran ed Esfahan comincia piatto e desertico, intervallato da campi, boschetti di arbusti, villaggi e fattorie. Poi, da ovest, emergono i primi brulli corrugamenti dei monti Zagros che affiancano la strada come una scorta di cavalieri armati che accompagnano il percorso verso sud. Infine, arrivano anche da est, dune e colline si fanno sempre più vicine, dando un aspetto più gioioso al paesaggio.
Si viene a Esfahan per specchiarsi nelle bellezze dell’architettura persiano-islamica, con l’enorme Piazza Naqsh-e jahàn, la Moschea del Venerdì e il palazzo Ali Qapu della dinastia safavide, quella che tra 1500 e 1700 fondò l’Iran moderno e impose il culto sciita a tutta la regione.
In ogni pensione, in ogni camera, anche le più fatiscenti, c’è a disposizione un tappetino, un rosario e una pietra sacra per pregare. La pietra si chiama Muhr e deve per forza essere di creta o di fango. Gli sciiti non possono battere la fronte su superfici artificiali e la Muhr rappresenta la terra, la natura. Per i sunniti, sono tutte balle perché il profeta non ha mai fatto cenno a pietre su cui pregare. E quindi, l’ossessione sciita per quella pietra sarebbe in contraddizione con il fatto che l’Islam debba essere semplice da praticare.
Venendo dal caos e dall’enormità di Tehran, si ha la sensazione di essere finiti in una città d’arte e infatti questo è il luogo dove compaiono i turisti stranieri, francesi soprattutto, a gruppetti.
Passeggio lungo l’affollatissima Abbasi e attraverso il ponte Si-o-seh senza l’erudizione di un David Byron o di un Colin Thubron, che dall’alto dei loro studi oxbridgiani descrivono ogni singola piastrella che incontrano. Dei fuoriclasse: il primo ossessionato dall’architettura persiana, il secondo dalla storia dei luoghi e dalla mania di arrampicarsi non appena gli capita a tiro una montagna. C’è un negozio di ricchi tessuti specializzato in hijab, è affollato all’inverosimile. Vedo tanta forza, stile, delicatezza, in questa cura tutta femminile nel cercare la bellezza anche attraverso lo strumento della propria sottomissione.
La grandezza di una civiltà si capisce dall’uso che fa dell’acqua. E la civiltà islamica estesa (estesa perché non è solo una questione religiosa, bensì di tutti i viventi che popolano la Mezzaluna) in questo senso è grandiosa. Dai keretz del bacino del Tarim in Xinjiang, ai delicati ruscelli artificiali dei giardini di Esfahan, una cultura dell’acqua armoniosa restituisce felicità alla vita. È vita quotidiana. La delicatezza dei gesti nelle abluzioni prima della preghiera, lo spreco inesistente, ti fanno dimenticare per un attimo ogni forma di scetticismo. Ma è soprattutto nei giardini dove le famiglie si raccolgono la sera, sdraiate sull’erba o sui tappeti, che il gentile frusciare ti disseta solo a sentirlo. Fa parte di un’armonia che è celeste oltre che terrena, con i giardini che ritornano nei motivi floreali che addolciscono le moschee. Il paradiso è un giardino. In questo, i musulmani mi appaiono così simili ai «miei» cinesi, che con il concetto di shanshui cercano il bello nell’armonia di acqua e montagne. Ma da un punto di vista diametralmente opposto: senza Dio.
Noi no, noi siamo altrove. Non ci sono fiori nelle nostre chiese, dove il culmine della bellezza è raggiunto da corpi nudi, estasiati, che si protendono verso un dio che sembra un vecchio muscoloso e un po’ caotico. Prometeico come gli acquedotti romani, la costruzione idraulica che meglio ci definisce. Io amo i giardini e lo scrosciare dell’acqua, ma nessuno mi toglierà lo slancio carnale verso il futuro, la rivoluzione quotidiana.
Quanto a corpi nudi protesi ed estatici, la cattedrale armena di Vank, a Esfahan, deve rappresentare un vero shock percettivo per qualsiasi musulmano osservante. Scene dell’inferno, corpi lacerati e morsi nelle palle da fiere demoniache, tutti nudi e tutti sofferenti. Ne approfitto per chiedere a un giovane studente di chimica che mi ha attaccato bottone che effetto gli faccia. Dice che per l’Islam il luogo di culto dev’essere un ricovero di pace e tranquillità e che i corpi nudi, le loro sofferenze esposte, sono scandalosi.
Poi c’è lui, il nudo suppliziato della nostra religione che, appeso alla sua croce, volge uno sguardo sofferente e inerme al cielo. Come osservava Georges Bataille, siamo gli unici ad adorare un suppliziato. Lo studentello mi dice che anche il loro imam Hussein è stato decapitato. Semplicemente, loro non ostentano il dolore. Gli armeni, sbatacchiati e massacrati tra Oriente e Occidente, hanno fatto di questa cattedrale una meraviglia sincretica. I ghirigori floreali islamici contornano le immagini figurative cristiane. Nel museo di fianco, la ricostruzione del genocidio armeno a opera dei turchi: un milione e cinquecentomila morti che ad Ankara e dintorni sono stati rimossi. Una madonna con un bambino attira la mia attenzione: ciglia nere e attaccate, fronte bassa neanderthaliana, un cliché di bellezza per noi indigesto, ma mi ricorda che anche in Xinjiang funziona così.
Cerco un po’ di ispirazione al tempio del fuoco zoroastriano che sovrasta Esfahan da una collina che sta a circa mezz’ora di bus dal centro, verso ovest. Mattoni di fango fatti per sgretolarsi nei secoli, come la religione che ha concepito il monoteismo per ragioni pratiche e poi è stata spodestata da tutti quelli venuti dopo. Con l’adorazione del fuoco, degli elementi naturali, il culto di Zarathustra non fu solo una reductio ad unum, dell’eterogeneità celeste dell’antica Persia, ma anche l’anello di congiunzione che ci ricorda come ogni astrazione metafisica si fondi in natura. Ciò che l’uomo ha davanti agli occhi. Ciò che vive. Qui, guardando dall’alto una pianura assolata, è esaltante credere che Zarathustra incontri Feuerbach.
Alla Masjed-e-Shah («Moschea dello Scià») è ora di preghiera, il muezzin ha appena cantato, uomini e donne si precipitano a fare abluzioni rituali per poi pregare. Mi aggiro per il grande cortile e sto per fotografare il cumulo di scarpe di fronte all’ingresso di una delle sale di preghiera, quando un giovane uomo esce e mi chiede da che Paese io provenga, per poi dirmi di tornare dopo le sei, «che a quest’ora la moschea è chiusa ai turisti».
Passeggio per il bazar e lo vedo rispuntare da dietro una colonna, mi fa segno di seguirlo e mi fa sedere di fianco a lui su una panchina. Tira fuori del pesce di fiume e del riso con i datteri e li divide con me. Si chiama Ghayoor Abbas, avrà una trentina d’anni, è di Qom, ha mollato i suoi studi di economia e management per darsi agli studi religiosi. Ha una giovane moglie e un figlio di otto anni, spera che possano raggiungerlo a Esfahan tra qualche tempo.
«Anche lei vorrebbe fare studi religiosi, ma senza nessuna pressione da parte mia, eh», specifica. Mi chiede se sono sposato. «No? E come fai con i tuoi desideri?» dice protendendosi in avanti con fare complice. Rispondo che mi piacciono le donne, ma che le circostanze della vita non sono uguali per tutti. Ognuno è figlio della propria storia. Dalle nostre parti, il desiderio è autonomo dall’istituto coniugale.
«Credi in Dio?» chiede. «No? E come è possibile che si siano create tutte le cose?»
Ormai sono abituato a questa domanda senza senso. Una volta me la fece un giovane mongolo convertito da missionari battisti coreani, mentre, a cavallo, da una collina, contemplavamo una valle sconfinata, di una bellezza mozzafiato, di cui non si vedeva la fine, sia a destra, sia a sinistra. Cercai di comunicargli che mi bastava la pienezza reale, materiale, di tutto quello. Perché smettere di sentirne le bellezza facendola risalire a un essere immaginario con la bacchetta magica?
Ma Ghayoor Abbas è deciso a convertirmi con la sua visione del divino: «Pensa a un’azienda. C’è una gerarchia e qualcuno di sopra che fa in modo che le cose funzionino». Sì, per lui Allah è un super amministratore delegato.
«Come può esserci la vita?», insiste. Tralascio la risposta sul caos e le reazioni chimiche, qualche miliardo di anni dopo il Big Bang, e azzardo che a volte tendiamo a costruirci un dio a nostra immagine e somiglianza. E che il suo mi sembra bizzarramente manageriale. Ride, ma non molla il colpo: «Tutti i grandi profeti nati in tempi diversi hanno parlato di un solo dio. Tra ebrei, cristiani e musulmani ci sono solo piccole differenze». Contraerea: gli indù hanno quintali di dei, i buddhisti vivono diverse vite prima di svanire (e per loro è il massimo), mentre i taoisti rientrano subito in natura (riciclo ecologico), come il sospiro del vento. Niente, evidentemente per lui tutti quei tipi che stanno a Oriente dell’Islam sono dei «compagni che sbagliano».
Scusa Ghayoor, ma i grandi filosofi dell’antichità credevano in diversi dei o forse non ci credevano per niente.
«Platone, Aristotele, quelli lì dici? Ah sì, erano dei grandi. Voglio studiare anch’io filosofia. Lo sapevi che l’Imam Khomeini era un filosofo?»
Arriva un vecchio con il bastone, sta su per miracolo ed è pure stanco. Ghayoor Abbas si alza, lo acchiappa per le spalle e lo fa sedere, gli offre del cibo, è proprio una giovane marmotta di Allah. Quello lo guarda stranito e un po’ spaventato, non ne vuole sapere, ma alla fine trangugia un dattero per le insistenze del ragazzo.
«Mia moglie non va in giro con quel tovagliolo striminzito – dice indicando due turiste francesi che indossano il foulard d’ordinanza – bensì con un vero hijab che si chiude anche davanti». Chiedo se sua moglie si copra anche la faccia. Nelle città iraniane ho visto solo una donna completamente velata, nulla in confronto alle migliaia di giovani che tengono svogliatamente il fazzoletto a metà del cranio, lasciando uscire tutta la frangia. «No – risponde – solo qualche volta, quando la guardano così», e per spiegarlo mima uno che si protende in avanti con gli occhi sgranati. «Ma non la obbligo mica io, eh».
Ormai ha rinunciato a convertirmi, lui è l’ultimo di sei fratelli: tutti maschi, tutti con ottimi lavori. I genitori sono morti. Crede che la capitale sia piena di spie a libro paga degli Usa.
«A Tehran c’è troppa gente che farebbe di tutto per realizzare i propri desideri».
«Ma come – replico – prima mi hai detto che i desideri sono buoni».
«Sono buoni, sì, ma solo se non fanno male a nessuno».
Non beve acqua durante il pasto «perché fa male, soprattutto con il pesce», in compenso trangugia Coca Cola. Così a disagio nel proprio corpo e nei propri desideri, da negare quello e quelli altrui.
«Tu fai palestra?», chiede. Ha le braccia muscolose, non è alto ma è ben messo. È un bel ragazzo che potrebbe ricordare vagamente Johnny Depp, prima che diventasse bolso. In Iran il culturismo e i muscoli pompati vanno terribilmente. «Sì, ogni tanto uso dei pesi». Gli chiedo cosa dica la religione in materia. «È assolutamente d’accordo, dobbiamo essere forti fisicamente per difendere la nostra fede».
Su una panchina di Esfahan stavo chiacchierando, dividendo pesce e riso, con un giovane fanatico che crede in Allah, il grande CEO, e che tira su il bilancere. Vive della tassa che i musulmani facoltosi si autoinfliggono per sovvenzionare le congregazioni religiose e non sa bene come prendere i desideri. Stavamo bene insieme, così amo pensare.