Luigi Tomba ha vinto il prestigioso Joseph Levenson Prize per il suo libro The Government Next Door: Neighbourhood Politics in Urban China.
Negli ultimi vent’anni, il governo cinese ha diviso sia la società, sia lo spazio urbano, in un processo che cerca di controllare una società in evoluzione e al tempo stesso riproduce questa evoluzione. La nuova urbanizzazione "sostenibile" non è un tentativo di dare ordine a ciò che prima fu caotico, ma di continuare un grande progetto di ingegneria sociale aggiornandolo al tempo presente. Intervista a Luigi Tomba. Nell’Occidente che guarda alla Cina, va per la maggiore una narrativa secondo la quale sarà il nuovo ceto medio a sancire il trionfo della democrazia (secondo caratteristiche occidentali, si capisce), grazie a bisogni e richieste sempre più articolati di cui è portatore: una complessità impossibile da contenere nel sistema monopartitico.
Luigi Tomba, sinologo, esperto di urbanizzazione cinese e ricercatore all’università di Canberra, ci racconta in realtà una storia un po’ diversa nel suo libro The Government Next Door (Cornell University Press). Per oltre un decennio, Tomba ha studiato come le autorità cinesi abbiano di fatto attuato un grande progetto di ingegneria sociale: creato un ceto medio consenziente proprio attraverso la proprietà immobiliare, elemento distintivo della nuova borghesia (con l’auto, di cui abbiamo già trattato). Un meccanismo che spiega molto della Cina attuale.
Quando si sente parlare della nuova urbanizzazione sostenibile, con cui il governo vuole rendere cittadini almeno altri duecento milioni di cinesi provenienti dalle campagne, si pensa che la fase precedente sia stata il frutto di un processo disordinato, anarcoide, dove ha agito soprattutto l’energia animale del mercato. Così sarebbero sorte megalopoli disordinate da decine di milioni di abitanti e sarebbe esplosa la diseguaglianza sociale. In tutto questo, tu ci vedi invece un vero e proprio progetto di ingegneria sociale.
C’è un’urbanizzazione macro, che consiste nello spostamento di masse rurali nelle città, con il conseguente allargamento tentacolare delle metropoli; e c’è un’urbanizzazione interna, che trasforma i tradizionali quartieri. Usiamo la parola gentrificazione per dire che la città, che per un certo periodo di tempo è stata il luogo della produzione industriale, torna alle sue caratteristiche storiche: luogo dei consumi. Questo processo ha per protagonisti i ceti che in Cina erano già dominanti, cioè chi in città poteva già abitarci, chi aveva un lavoro legato allo Stato e chi aveva una casa. Quando il governo si trova di fronte sia questo ceto di privilegiati, sia le masse rurali che arrivano in città, ha qualche problema: non sa più come governare questi interessi che si moltiplicano e non sono più allineati, dato che non ci sono più le grandi industrie pesanti di Stato e le danwei (le unità di produzione) che normano ogni aspetto della vita delle persone.
Siamo alla fine degli anni Ottanta e nello stesso momento nasce anche l’idea che l’economia cinese debba trasformarsi ed essere trainata più dai consumi che dai grandi investimenti di Stato. Bisogna quindi creare un gruppo sociale che sia in grado di consumare. Ma si parte da un livello molto basso: gli stessi ceti privilegiati che hanno una serie di sicurezze – il lavoro, un alloggio – non possiedono molti soldi per consumare, quindi bisogna creare dei meccanismi per consentirglielo. L’unico modo per farlo è utilizzare ciò che di fatto è già in loro possesso: le case dove abitano.
È così che risorse pubbliche diventano private, in un processo che non è solo della Cina: un po’ ovunque nel mondo le classi medie sono diventate tali grazie alla proprietà della casa. Ciò che di straordinario c’è in Cina è che questo privilegio è distribuito attraverso canali tradizionali: imprese di Stato, unità di lavoro, ministeri. È un welfare destinato solo ad alcuni gruppi, quelli più lealisti verso il governo. Così, per esempio, chi è da vent’anni nel settore pubblico, se vuole comprare casa, ha diritto alla riduzione del prezzo c’acquisto di un buon due per cento per ogni anno lavorato; se ha figli, beneficia di ulteriori riduzioni: alla fine, si portano via l’appartamento a prezzi stracciati. Il bello è che all’inizio, molti non vogliono neanche comprarla, la casa, dato che tanto ci abitano già. Cominciano a farlo quando si rendono conto che la proprietà immobiliare dà loro accesso ad altri consumi. Salgono i prezzi e vendendo o affittando la vecchia casa se ne comprano un’altra, poi un’altra ancora e così via. Questa è la prima generazione di ceto medio ed è la base per il successivo grande sviluppo immobiliare.
Quindi con la nuova urbanizzazione che cosa cambia? Stanno forse cercando di far diventare ceto medio tutti gli altri, quelli rimasti indietro?
Torniamo al concetto di gentrificazione, cioè, in tutto il mondo, la sostituzione del vecchio proletariato con il ceto medio creativo nei vecchi quartieri popolari, che determina un cambiamento del paesaggio urbano e una crescita dei valori immobiliari. Ebbene, in Cina urbanizzazione e gentrificazione coincidono direttamente: il governo locale espropria o compra la terra dei contadini, la converte in terreno urbano aumentandone il valore e poi la vende al costruttore facendo leva sulla domanda della classe media. L’aspetto più importante e specifico della Cina è che l’incremento di valore viene sottratto ai contadini e dato allo Stato. La chengzhenhua, la nuova urbanizzazione “sostenibile”, è in primo luogo una specie di contro-urbanizzazione, nel suo tentativo di ridurre le chengshi (metropoli) e far crescere le chengzhen (città di media grandezza). Ma, attraverso questo processo, è anche il tentativo di far diventare urbane aree che in realtà sono periurbane. È il grande progetto di creare valore immobiliare anche lì dove non c’è ancora e di accentrarlo nelle mani dello Stato. La prima urbanizzazione non fu tanto lo spostamento dei contadini in città, bensì da aree rurali ad aree semi-rurali o periurbane, a ridosso delle città: dalle campagne sottosviluppate a quelle più sviluppate e industrializzate, con il conseguente allargamento tentacolare della città e la trasformazione dei contadini in operai. Ora, vogliono creare ancora valore, evitando però di allargare ulteriormente megalopoli da trenta milioni di abitanti, perché diventano ingestibili. Insomma, più che di un’urbanizzazione più “umana” parlerei di un’urbanizzazione più “gestibile”.
C’è l’intento di allargare il ceto medio consenziente e quindi di ridurre la diseguaglianza oppure le belle parole sulla “società del benessere moderato” (xiaokang shehui) sono uno specchietto per le allodole?
Innanzitutto la politica della terra e l’urbanizzazione continuano a essere processi governati dall’alto, per cui non è che i contadini da domani tornano a gestirsi terreni come pare a loro. Per esempio, adesso le autorità vogliono ampliare l’aeroporto che sta a sud di Pechino e requisiscono comunque gli ultimi campi disponibili; non mi risulta che chiedano il parere dei contadini e tanto meno restituiscono centralità all’agricoltura come attività economica. Esiste comunque una necessità di ridistribuire meglio la ricchezza per ampliare la capacità di consumo della popolazione. Il governo si è reso conto che ormai quasi la metà della popolazione che di fatto vive in città non ha la residenza e quindi diritti e servizi base, ossia possibilità di spesa: è necessario dargliela. Quindi è evidente l’esigenza di ridistribuire la ricchezza, ma il problema è come farlo, dato che la Cina è estremamente complessa e diversificata. Esistono grandi città con un potenziale ridotto e piccole città con un potenziale altissimo, sicché qualsiasi decisione del centro deve poi essere verificata a livello locale: sia da città e città e sia all’interno delle stesse città, dove i quartieri sono così dissimili tra loro. Questo è un po’ il mistero della politica cinese: come possa esistere una così grande diversità interna e come poi tutti questi pezzi si tengano insieme e marcino nella stessa direzione.
Siamo arrivati alle trasformazioni interne delle città. Tu qui introduci il concetto di social clustering.
È una strategia sociale. Abbiamo visto finora l’ingegneria sociale che consente ad alcune persone di consumare più di altre. Il social clustering è la stessa strategia trasferita nello spazio, il controllo del territorio: cosa si costruisce e dove. Addirittura si decide la politica dei prezzi, come nel caso delle jingji sheyong fang, le cosiddette case a prezzi sostenibili. Non sono sussidiate, non sono case popolari, ma il governo dà terreni a prezzi ridotti al palazzinaro e lui in teoria costruisce parte delle case per determinate categorie sociali a basso reddito. Di solito poi lui aggira la norma costruendo appartamenti da 120 metri quadri invece che da 60, così le categorie che dovrebbero beneficiarne non possono comunque permetterseli e lui è libero di venderli al ceto medio, a prezzi superiori; contribuendo così all’ulteriore incremento dei valori immobiliari e falsando totalmente il mercato.
Ma comunque, questa facoltà di controllo del territorio da parte del governo porta alla creazione delle comunità chiuse, con le guardie all’ingresso e così via. Per le autorità, a livello teorico, ci sono svantaggi e vantaggi. I primi consistono nella segregazione, che di solito ingenera conflitti. Ma i secondi sono notevoli. Innanzitutto una capacità di mappare, “vedere” il territorio: in quell’area i prezzi sono tali, quindi c’è quel tipo di gente, in quell’altra la tale azienda ha comprato metà degli alloggi e quindi ci vivono soprattutto i suoi dipendenti; e così via. Se tu vedi la città dall’alto, con Google Earth, scopri una struttura cellulare: ci sono centri residenziali e quartieri di hutong (vicoli).
Si formano così dei cluster che forniscono informazioni su come governare. Per esempio, nei quartieri residenziali il controllo può essere allentato, perché il nuovo ceto medio si autogoverna: ci sono management company che gestiscono i servizi, hanno guardie giurate e regole di buon vicinato; quindi il potere subappalta di fatto il governo di quella zona e può invece concentrarsi sulle zone più povere, dove è necessario il suo intervento diretto. Questa suddivisione spaziale consente anche di contenere i conflitti, perché la gente tende a dedicarsi al proprio intorno immediato e pensa alla pulizia delle scale piuttosto che al parcheggio sotterraneo.
Questo dispositivo di controllo ruota attorno al concetto di suzhi, qualità. Paradossalmente, sia nei quartieri borghesi e sia in quelli di antica classe operaia.
È vero. Il modo in cui la gente percepisce la qualità è sempre relativo, dipende dal contesto. L’idea di qualità è sia governativa, sia popolare. Da quando la leadership ha deciso di ridurre la quantità della produzione e svoltare verso la qualità, tutta la società si è imbevuta di questa idea per cui bisogna essere “qualitativi”: comportarsi bene, con più istruzione ed educazione, eccetera. È propaganda sociale, se ti comporti in un certo modo, hai suzhi; e la suzhi è ciò che ti fa diventare un vero cittadino. Questo lo avverte sia il migrante rurale che diviene “urbano” seguendo una serie di regole; sia il nuovo ricco, che va a vivere con altri del suo rango. Comportarsi in un certo modo ti consente l’inserimento in un certo contesto sociale.
A Shenyang, ho studiato una comunità chiusa del ceto medio, dove metà delle case era stata acquistata sul mercato, l’altra metà assegnata dal governo: da una parte, businessmen, dall’altra funzionari pubblici. Ebbene, nonostante appartenessero alla stessa classe sociale, avessero gli stessi bisogni e consumi, si odiavano: se i businessmen dicevano che gli altri erano tutti corrotti, i funzionari sostenevano invece che chi veniva dal mondo degli affari non aveva suzhi. Questo per dire che l’idea di qualità è entrata nelle coscienze.
E siamo dunque all’organizzazione del consenso: nonostante ci siano conflitti, diseguaglianza e così via, tu sembri vedere una condivisione di valori “proprietari” che tiene tutti insieme.
Più che nei valori, c’è condivisione nelle pratiche. Se si chiede a un cinese di qualsiasi ceto che ne pensi del governo, la risposta sarà sempre negativa: “Sono tutti corrotti”. Allora uno pensa che ci sia una base rivoluzionaria. Però poi ciò che dice il governo penetra e si trasforma in pratiche di tutti i giorni: la suzhi è esattamente un dispositivo del genere. Tu sai che per diventare un vero cittadino con dei diritti devi “avere qualità”, un’idea che nasce là in alto e che forse arriva addirittura dal confucianesimo, ma che tu accetti. Quindi magari parlano male del governo, ma ne accettano le logiche e le pratiche.
Vorrei sottoporti una riflessione su come la proprietà immobiliare possa creare il consenso, ma anche distruggerlo. Nel quartiere pechinese di Wangjing, che tu analizzi, il nuovo ceto medio cinese sussidiato aderisce alla narrativa della leadership nel momento in cui diventa proprietario. A Hong Kong, la nuova generazione, seppur cresciuta dopo l’handover del 1997 (il passaggio dalla Gran Bretagna alla Cina nel segno di “un Paese, due sistemi”) nega invece il consenso e scende in piazza quando comprende che l’accesso alla proprietà – e quindi a un certo benessere materiale – le è precluso. Ti ci ritrovi?
Il problema è proprio che ora in Cina c’è una nuova generazione. Se tu parli con i venticinquenni-trentenni, anche nella Cina continentale, ti accorgi che le speranze di avere una proprietà e quindi una famiglia si sono ridotte. Sono esclusi proprio perché la prima classe media ha speculato nell’immobiliare ed è cambiato anche il mercato del lavoro, per cui non hanno le stesse opportunità di prima. Soprattutto gli hai gui (le “tartarughe di mare”), cioè quelli che hanno studiato all’estero investendo denaro e risorse e che tornano a casa senza magari trovare un lavoro all’altezza delle loro aspettative. Per cui subiscono una discriminazione e devono appoggiarsi alla famiglia, altrimenti sono tagliati fuori. Parallelamente ci sono i figli di migranti che sono ormai alla seconda, terza generazione, ma continuano a non avere accesso ai diritti base in città. Loro sono il grande enigma per il futuro. Dopo di che a Hong Kong circola più informazione e c’è più possibilità di mobilitazione, ma il disagio è simile in tutta la Cina. È lì che interviene lo Stato autoritario, facendo capire che puoi gradualmente ampliare le tue rivendicazioni e interagire con il governo, ma che non puoi rompere di netto, perché altrimenti scatta la repressione. La gente a sua volta sa quali sono i limiti di questa interazione, qual è il punto fino al quale può spingere.
Al di là della repressione, vedi nel governo cinese qualche altro meccanismo adattativo più sottile?
C’è una banalità che ci ripetiamo, ma che è vera: una gran parte della popolazione sta molto meglio di vent’anni fa. Inoltre in Cina il potere è estremamente decentralizzato, per cui una stessa legge viene messa in pratica in maniera diametralmente opposta a livello locale: si adatta alle circostanze. Questi meccanismi rivelano un altissimo livello di sofisticatezza che funziona proprio perché il governo ha comunque un sistema di controllo che raggiunge tutti i livelli del territorio. Più il governo decentralizza ed è percepito come lontano, più la gente amplia i propri spazi di libertà; ma, per poterselo permettere, Pechino può all’occorrenza affidarsi all’apparato di sicurezza, che è lì per dimostrare che il governo è presente e tappa i buchi se ce n’è bisogno. La repressione dei dissidenti che si spingono troppo in là, il controllo della stampa, hanno questa funzione: far vedere che il governo, comunque, c’è.