Nel dibattito sulla opportunità di stringere rapporti con la Cina nell’ambito della Belt and Road Initiative , in generale, la barra del timone sembra tristemente affidata alla discriminante ideologica: se non sei anti-, sei filo-. È evidentemente un’ottica che mostra la corda ed evidenzia una generale impreparazione rispetto a una questione comunque all’ordine del giorno. Con o senza la «Nuova Via della Seta» con la potenza cinese è necessario fare i conti, o, più precisamente, facciamo già i conti, in modo più o meno consapevole.
Uno dei leit-motiv che emerge regolare come un mantra è la preoccupazione di confrontarsi con un paese non democratico, che ha scarso rispetto per i diritti umani.
È di particolare interesse il primo punto, ovvero il tema della creazione del consenso e del controllo dei suoi meccanismi. Questo non perché il secondo tema non abbia rilievo, né perché abbia senso adire la sterile e apparente dialettica di opporre il male al peggio: però anche gli Stati Uniti, però anche l’Europa, ecc.
Nel contempo, è certamente vero che la questione dei diritti umani ha rilievo in Cina «ma», ciò nondimeno, essa non ha rilievo «solo» in Cina. Essa si intreccia con la questione complessiva di quali siano, rispetto ai destini dell’intero pianeta, il ruolo delle grandi potenze e dei loro modelli sociali (quelli interni e quelli che esse immaginano per i paesi partner) e delle modalità messe in atto per conservare, perpetuare e diffondere tali modelli. Si chiama «consenso» e la Cina è ben consapevole che la rete e, in generale, la circolazione di uomini, di idee e in fondo anche di merci si porti sempre appresso – e non solo in Cina- i germi di una sfida ai modelli sociali consolidati.
La risposta della Cina si muove in modo evidente nella direzione del «controllo» e della propaganda, ma con strategie che – dalla nascita della Repubblica popolare- alternano fasi di maggiore chiusura a momenti di più forte capacità e volontà di lasciare spazio alla dialettica sociale.
La fase attuale non è una fase di apertura, ma si basa su un consenso interno molto forte, radicato nel sostanziale successo economico e nella capacità della leadership di giocare tale successo – insieme alla forte proiezione internazionale connessa con la Bri – conferendo a entrambi gli elementi la funzione di un «balsamo» capace di guarire il paese dal suo atavico complesso di inferiorità e di rivalsa rispetto all’occidente.
Basterà riflettere sulla nuova narrazione della storia recente del paese che si fa strada in Cina e che, per esempio, risulta abbastanza evidente nel silenzio quasi imbarazzante che sembra circondare un anniversario sempre celebrato con grande risonanza in Cina fino ad anni recenti: la ricorrenza del Movimento del 4 maggio 1919.
In quella data, protestando contro l’esito del trattato di pace di Versailles, gli studenti e gli intellettuali cinesi diedero vita a una serie di manifestazioni di piazza, considerate da sempre alla base della Cina moderna e contrassegnate dall’ingresso nel paese di nuove parole d’ordine, modellate sostanzialmente sui valori occidentali di libertà, democrazia, patriottismo (non nazionalismo), anti-imperialismo.
Esattamente dieci anni fa, il 17 marzo 2009, nel ricordare l’evento il China Daily lo definiva una «pietra miliare» nella storia della Cina moderna, «che combinava il patriottismo con la volontà di apprendere dai paesi stranieri, e distinguevano tra le invasioni e le umiliazioni subite da parte delle potenze straniere e l’introduzione degli aspetti avanzati della cultura occidentale».
Senza dubbio, nella Cina di Xi, l’eredità della cultura occidentale è guardata con un certo fastidio, in nome della affermazione di una «cinesità» che, in termini di soft power, com’è noto, ha conferito nuova centralità alla cultura cinese classica e alla «tradizione» (come sempre accade, più o meno reinventata ad usum Delphini).
Anche nella Cina della Belt and Road, comunque, la rete rimane un luogo dove si esercita in qualche misura la possibilità di critica rispetto agli avvenimenti sociali (ma non rispetto ai fatti di portata squisitamente politica) e questa forma di controllo è stata in parte incoraggiata nei primi anni di «campagna contro la corruzione» – dopo l’ascesa di Xi Jinping, ma anche, in generale, a partire dal periodo che ha immediatamente seguito l’«ubriacatura collettiva» delle Olimpiadi 2008- ; rimane memorabile il clamore suscitato dal giovane rampollo della nomenklatura che, lanciato a folle velocità nella sua fuoriserie e fermato dalla polizia dopo avere causato un incidente, se ne uscì col fatidico: «Lei non sa chi sono io…», versione cinese.
Il figlio di Li Gang – funzionario di polizia di Baoding – non lontano da Pechino finì su tutti i social e diede la stura a una campagna senza precedenti contro l’arroganza di questo ceto di «nuovi mandarini», accompagnata dalla esplosione di una ondata di satira on line tra le più fantasiose e divertenti che si ricordino. Ciò detto, tuttavia, il controllo sulla rete si è intensificato anche grazie, come vedremo, a un continuo perfezionamento di tutte le tecnologie connesse con lo sviluppo della «intelligenza artificiale», in cui la Cina è all’avanguardia.
Il primo biennio del governo di Xi è stato contrassegnato da una forte riconfigurazione della governance di Internet, che è bene rispecchiato nel termine «Internet Plus», introdotto da Li Keqiang nel 2015 e riferito al progetto di fare della Cina una «potenza nel campo di Internet» (wangluo qiangguo). Il progetto si è concretizzato nella creazione di nuove istituzioni – con funzione di regolazione e di controllo – e di nuove regole finalizzate a «integrare le funzioni della telefonia mobile, con i big data, il cosiddetto cloud computing e l’internet delle cose».
Come afferma nel 2017 uno studio di Rogier Creemers (Università di Leiden, il governo cinese «ha creato una rete per la informazione integrata e centralizzata, a servizio di una ambiziosa agenda in cui le tecnologie digitali al centro della attività di propaganda, di creazione della opinione pubblica e del controllo sociale».
Nel contempo, si è certamente sviluppata l’attenzione alla rete fuori dalla Cina. Non esiste, di fatto, alcuna ricerca seria (in termini di ampiezza dell’indagine) sull’utilizzo in Cina dei bots come parte di una strategia di propaganda interna e internazionale, ma questo non significa, ovviamente, che tale utilizzo non esista né rende meno legittima la preoccupazione che essi erodano pesantemente l’efficacia delle strategie tradizionali di creazione del consenso.
Di certo, i segnali sono inquietanti, anche se, come è ben noto, questo non riguarda solo la Cina; i segnali, in generale, non sono tranquillizzanti. Nel 2014, la Cina organizzava su Twitter una campagna in favore della politica attuata verso Tibet con l’utilizzo cospicuo di account poi rivelatisi falsi, mentre, più di recente, si produceva nell’attacco all’attore Murong Xuecun, colpevole di avere criticato il governo, o, contro l’uomo d’affari Guo Wengui, (troppo) attivo nella campagna di anti-corruzione e moralizzazione alla fine del 2017.
A queste forme di condizionamento del consenso, pianificate ma sfuggenti e per questo inquietanti si affiancano comunque strategie tradizionali, che oramai paiono persino ingenue. In questa tradizione si iscrive, per esempio, nello scorso mese di febbraio, l’improvviso ritiro dal Festival di Berlino, «per ragioni tecniche», dell’ultimo film di Zhang Yimou, Yi miao zhong (Un minuto secondo), dedicato alla Rivoluzione Culturale, un altro evento saliente del quale si sta riscrivendo la narrazione.
Ma non si discosta dalla stessa linea strategica neanche il grazioso invito con cui l’Ambasciata Usa in Italia sta inviando alcuni referenti per i rapporti con la Cina di importanti Atenei del nostro paese, a una cordiale chiacchierata sulla propria attività di contatto, relazione e ricerca con l’ingombrante antagonista. Fait vos jeoux.
di Stefania Stafutti*
*Professore ordinario di Lingua e Letteratura cinese presso l’Università di Torino
[Pubblicato su il manifesto]