La “Durand Line”, la frontiera tra Pakistan e Afghanistan, divide in due un mondo un tempo sostanzialmente omogeneo: divide cioè le terre abitate dai pashtun. Emanuele Giordana la racconta su Confini, lo speciale Asia del Manifesto a cura di China Files. Lungo i confini del Pakistan e dell’Afghanistan si snoda una lunga frontiera di 2,460 chilometri. Per definizione “porosa”, è in grado di mettere in contatto – attraverso minuscoli passi di montagna – i due Paesi e, soprattutto, di favorire gli spostamenti della guerriglia talebana che tra santuari, teatri di battaglia, rifugi e piste, attraversa la “Durand Line”, così si chiama il confine, bypassando gli unici due reali check point tra Pakistan e Afghanistan: il passo di Khyber e il posto di frontiera di Chaman, nel Sud.
Per interpretare quel lungo serpentone sulla carta geografica bisogna fare un passo indietro che rimanda all’epopea dell’Impero britannico e ai frutti avvelenati che ha lasciato sulle sue macerie. Uno di questi riguarda proprio la frontiera che il righello coloniale che Sir Mortimer Durand aveva tracciato durante le ultime stagioni del Raj, quando la Corona aveva preso il posto della Compagnia delle Indie e Londra voleva tutelarsi dalle mire zariste al confine occidentale.
Ma a questo primo frutto avvelenato se ne aggiunse in seguito un altro nella geografia di quell’Impero in disfacimento: i confini tracciati più tardi da altri burocrati e genieri di sua Maestà per dividere l’India creando il Pakistan, la Terra dei Puri, voluta dai musulmani indiani e dal loro capo Ali Jinnah, per separarsi dalla nascente Unione indiana di Jawaharlal Nehru, Gandhi e del Partito del Congresso da cui si erano sentiti traditi.
L’eredità coloniale
La Partition del 1947, che doveva separare l’India dal neonato Pakistan, passava a Ovest per la divisione del Punjab, la ricca terra dei cinque fiumi, e a Est per una divisione del Bengala. La geografia malata di queste nuove realtà geopolitiche tracciate sulle mappe, si trasformò in un esodo senza precedenti di oltre 14 milioni di individui al di qua e al di là della linea di demarcazione tracciata grossolanamente da Sir Cyril Radcliffe, che aveva sezionato in due il Punjab e, con lui, tagliato a metà villaggi e case, campi e stalle, terre e fossi per l’irrigazione.
Sul fronte orientale invece, era stata creata la bizzarra enclave del Pakistan orientale – una porzione del Bengala oggi Bangladesh – dove i problemi di convivenza tra due entità separate da migliaia di chilometri entrarono in conflitto agli inizi degli anni Settanta, scatenando una guerra tra India e Pakistan che portò alla secessione dei bengalesi “pachistani” che non si riconoscevano nell’artefatto gemello occidentale.
A Ovest, come abbiamo visto, c’era invece stato un altro taglio longitudinale che risaliva alla fine dell’800: nel 1893, la geometria coloniale aveva tracciato quel confine lungo oltre 2mila chilometri che serviva a separare in modo evidente l’Afghanistan, di cui Londra non era riuscita ad aver pienamente ragione, dai territori sotto dominio britannico che in parte dovevano diventare Pakistan un secolo dopo.
Prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine. Quei frutti avvelenati, quella difficile eredità, figlia di un calcolo attento e perverso, doveva rilasciare il suo veleno lentamente. A occidente come a oriente. Sino ad esplodere definitivamente a Est con la secessione del Bangladesh e al centro con le ripetute guerre tra Islamabad e Delhi. A Ovest infine, con le ripetute sommosse locali, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e, in seguito, con l’epopea talebana sino all’occupazione della Nato a partire dagli inizi del nuovo secolo. Guerra in cui la Durand Line ebbe e ha un ruolo decisivo.
La frontiera maledetta
La “Durand Line”, la frontiera tra Pakistan e Afghanistan, divide in due un mondo un tempo sostanzialmente omogeneo: divide cioè le terre abitate dai pashtun (chiamati pathan in Pakistan). Quelle aree, molto simili per lingua, tradizioni e costumi, furono costrette a separarsi che lo volessero o no, piegate a far parte di Stati nazionali spesso solo subiti come un potere estraneo. Il disegno di questo confine, intatto da allora, si deve al lavoro di Sir Mortimer Durand, all’epoca segretario agli Esteri del governo del Raj. La nuova frontiera, destinata a chiudere contenziosi antichi e soprattutto a chiarire quale fosse – soprattutto in chiave anti russa – il bastione difensivo occidentale di Sua Maestà, definiva le zone di influenza dell’India britannica e dell’Afghanistan.
Il suo tracciato scatenò all’epoca una rivolta tribale nelle aree pashtun, che per essere contenuta, richiese l’invio di 35mila soldati. Fu solo una delle tante perché, racconta Olaf Caroe nel suo monumentale “The Pathans”, andare a ispezionare le aree tribali era per l’esercito di sua Maestà una pericolosa avventura: il fuoco dei cecchini, appostati sui fianchi delle gole lungo tratturi polverosi e aridi in estate o resi inaccessibili dai rigori dell’inverno, giocava al tiro a segno con gli scout dell’esercito di Sua Maestà. Uno dei luoghi più pericolosi era il Waziristan, una vasta area tribale controllata da diversi clan spesso in guerra tra loro. La sua fama è ancora oggi sinonimo di paura e autonomia ed è il luogo eletto dai talebani pachistani per i loro santuari più nascosti.
La frontiera è da sempre occasione di contenziosi e persino di poco amichevoli scambi di arma da fuoco dalle due parti. E il suo nome si è legato, nell’andirivieni della storia, allo spauracchio del Pashtunistan – la terra dei pashtun – una regione etnicamente pura che comprenderebbe un territorio vasto quanto l’Italia, spauracchio agitato per calcolo e propaganda ora da questo ora da quell’attore. E’ un’idea che resta nell’immaginario collettivo dei pashtun e dei patahn e resta un fantasma molto temuto a Kabul come a Islamabad che, nel 2006, aveva addirittura pensato di minare la dannata linea di Durand.
Pashtun e pathan
Il termine ricorrente oggi per definire la Durand Line è “frontiera porosa”. In effetti è così difficile da controllare e passare da una parte all’altra è impresa facilissima per chi conosce quei nascosti camminamenti buoni per capre e polpacci robusti. Ecco dunque i famosi “santuari” che i talebani afgani, in stragrande maggioranza pashtun, utilizzano nei territori pathan del Pakistan. In Afghanistan l’area abitata dai pashtun è molto vasta ma è estesa soprattutto nelle province orientali e meridionali del Paese. In Pakistan la zona abitata dai pathan corre lungo l’asse orientale della frontiera e fa parte delle Federally Administered Tribal Areas (Fata), create dal Raj nel 1949 e formate da sette agenzie (Bajaur, Khyber, Kurran, Mohmand, Orakzai, Waziristan del Nord e del Sud) all’interno della provincia di Khyber Pakhtunkhwa, fino al 1995 North-West Frontier Province.
Dotate di larga autonomia, le Fata sono rette da governi locali e utilizzano un sistema legislativo e giudiziario conforme alla tradizione tribale, amministrato dai leader tribali o malek, che si rifà alla legislazione coloniale del Raj britannico, in particolare al Frontier Crimes Regulations del 1901. Sono controllate dal governo di Islamabad grazie alla presenza dei Political Agent, funzionari di collegamento, con un potere limitato ma importante, il cui ufficio si serve di agenti noti col termine di tehsildars e naibs, che raccolgono informazioni sul terreno, integrate da quelle fornite dagli agenti della “polizia tribale” – i khassadar – o da confidenti a libro paga nei vari villaggi.
Uno Stato nello Stato
Le Fata pachistane sono una regione tradizionalmente riottosa nei confronti del governo centrale e molto sottosviluppata (l’80 per cento delle sue terre sono incoltivabili): l’analfabetismo colpisce 8 persone su dieci, solo il 3 per cento delle donne riceve educazione scolastica e vi si trova un solo dottore ogni 8mila abitanti (che son poco più di 3 milioni). Gli investimenti del governo sono scarsi e, negli ultimi anni, i pathan hanno dovuto fare i conti con la guerra: le loro terre ospitano i talebani pachistani (Tehrek-e-Taleban Pakistan) e i loro “cugini” afgani (talebani afgani), due fazioni a loro volta divise in numerose correnti dalla geografia difficilmente collocabile. In entrambi, specie tra i primi, è forte l’infiltrazione qaedista. In entrambi è forte l’osmosi con una parte dei servizi segreti del Paese, il famigerato Isi. Infine, le stesse terre sono l’oggetto prediletto della campagna di bombardamenti mirati eseguita con droni americani a partire dalle basi afgane.
I pathan comunque non vivono solo nelle agenzie della cosiddetta tribal belt (cintura tribale): le cose si mischiano, etnicamente e politicamente, in tutta la provincia del Khyber Pakhtunkhwa sino alla sua capitale, Peshawar, all’ingresso del Khyber Pass. Per visitare le agenzie occorre un permesso speciale che Islamabad rilascia con riluttanza, non foss’altro perché queste terre sono un vero e proprio Stato nello Stato. Al viaggiatore che attraversa il passo di Khyber, lungo la catena montuosa che divide l’Afghanistan dal Pakistan, non sfugge come l’autorità pachistana finisca da una parte alla frontiera con l’Afghanistan – dove i doganieri hanno le divise dei finanziari pachistani o le bluse nere del contingente speciale della Frontiera – e dall’altra all’uscita della città di Peshawar, collegata da un pugno di chilometri al confine attraverso l’agenzia tribale di Khyber, in cui scorre la strada che porta al passo. In mezzo è “terra di nessuno”. Anzi, terra dei pathan.
In viaggio sulla Durand Line
Lungo la stradale tra il passo di Khyber e Peshawar, o nelle vie della cittadina di Landi Kotal che si trova lungo il percorso che conduce al passo, girano uomini armati col tipico pakol rotondo di lana dei pathan (o pashtun) della montagna. Ma non c’è un poliziotto pachistano. La tortuosa camionabile che collega il passo a Peshawar è circondata di abitazioni fortificate dagli alti muri senza finestre, dietro a cui si nascondono i segreti delle tribù pathan e in cui si rispetta il ferreo codice tribale, il pashtunwali. E’ dietro quelle alte murate che, si dice, sono nascosti i laboratori dove si raffina l’oppio per farne eroina e dove si tengono in magazzino gli articoli di un vasto commercio: quello delle armi. Il soldato dei Frontier Corp che accompagna il visitatore nel tragitto, si guarda bene dal scendere dal veicolo in cui fa da scorta e sconsiglia calorosamente il viaggiatore dal scendere a comprare le sigarette.
L’importanza geopolitica e geostrategica di quella strada e di quel passo non sfugge e nessuno. Circa un terzo della logistica della Nato destinata all’Afghanistan passa di lì. E di lì passerà parte del ritiro dopo il 2014. I pachistani possono bloccare l’accesso quando vogliono (e spesso lo fanno) e i talebani possono fare altrettanto, come fanno, attaccando i convogli. Ci si aggiungono i banditi che possono godere di impunità e protezioni. Il veleno della Durand Line è duro a morire e sinora sembra non esserci antidoto per tenerlo a bada.
*Emanuele Giordana è presidente onorario di Lettera 22, fondatore e direttore della testata dal 1993 al gennaio 2011. Scrive tra gli altri per il Manifesto e per lo Straniero. Tra i suoi libri: Afghanistan (Editori Riuniti), Diario da Kabul (ObarraO Edizioni), Due pacifisti e un generale (Ediesse)