Pechino nella sua proiezione globale ha investito sullo smart power degli investimenti, trascurando il soft power della cultura. E la sua immagine all’estero ne risente, dicono i sondaggi. Per rimediare la Cina lancerà un colosso radiotelevisivo. Rigidamente controllato dal Partito.
Di recente la Cina ha annunciato la nascita di “Voice of China” un conglomerato mediatico che finirà sotto il diretto controllo del Partito comunista cinese. In questo modo a Pechino ritengono che il paese possa ovviare all’informazione negativa e contribuire a una forma di soft power di cui la Cina soffrirebbe la mancanza. “Voice of China” unirà l’emittente televisiva nazionale (Cctv), la radio nazionale (Cnr) e il suo canale internazionale (Cri)
Per quanto riguarda il controllo della neonata corazzata mediatica di Pechino, in una nota del comitato centrale del Partito comunista si legge che “Al fine di rafforzare la leadership centralizzata e unificata del partito nel lavoro dei media, di rafforzare la gestione delle attività editoriali e sviluppare un’industria editoriale prospera, socialista con caratteristiche cinesi, le responsabilità dell’Amministrazione statale della stampa, Pubblicazione, Radio, Film e televisione (Sapprft) saranno riassegnati al Dipartimento centrale di propaganda”. Dopo questo aggiustamento, “la principale responsabilità del Dipartimento di propaganda centrale implementerà le linee guida di propaganda del partito”.
Tutto sotto il cielo, tutto sotto il partito. Del resto Xi Jinping, qualche anno, fa aveva sottolineato l’importanza che i media aderissero ai valori del partito e propagandassero un’immagine positiva della Cina. Questo nuovo cartello diventerà dunque la voce della Cina, ufficialmente, e c’è da credere che opererà affinché le informazioni sulla Cina rispettino i voleri della dirigenza cinese.
Come sottolineato da alcuni media stranieri, specie quelli asiatici e da considerarsi “rivali” di Pechino — come il Giappone -, la Cina ha già speso miliardi di dollari in propaganda per spingere le proprie iniziative come ad esempio la Via della Seta.
Tuttavia, secondo un sondaggio del 2017 realizzato dal Pew Research Center, “la maggior parte delle persone in Paesi come il Giappone, la Germania e l’Italia vedono la Cina in modo negativo”.
Voice of China costituirebbe dunque una risposta proprio a questo dilemma. Alcuni analisti — infatti — hanno sempre preferito usare il termine smart power anziché soft power, per evidenziare come l’influenza di Pechino sul resto del mondo sia stata esercitata, nel tempo, soprattutto grazie a investimenti e acquisizioni — e costruzione di infrastrutture — anziché a un vero e proprio tentativo di natura culturale.
Pesano le tante differenze culturali tra Oriente e Occidente che non consentono una semplice e immediata capacità da parte della Cina di influenzare l’opinione pubblica internazionale a proprio vantaggio. A sua volta l’opinione pubblica internazionale non pare permeabile rispetto a un modello percepito come distante e talvolta, grazie alla rappresentazione mediatica occidentale, pericoloso. “La Cina si compra tutto”, “finiremo per diventare tutti cinesi”: esempi di vulgata che hanno trovato spesso sponda sui media occidentali tesi a raccontare il Paese attraverso una sorta di narrazione degli eccessi. Pechino, a dire il vero, non ha fatto granché per ovviare a questi pregiudizi: il suo atteggiamento attraverso i media, specie negli anni scorsi, è apparso quasi infantile nelle sue rabbiose reazioni ad accuse provenienti da media internazionali.
Queste difficoltà, unite al sentimento del Partito comunista cinese che unifica il senso di informazione a quello di propaganda, hanno sempre reso molto complicato il lavoro dei media cinesi, più spesso ingaggiati in una vera e proprio difesa del proprio Paese da accuse provenienti dalla comunità internazionale. Nel tempo la Cina ha dato la sensazione di sentirsi accerchiata su temi come quelli inerenti ai diritti umani, la tutela delle minoranze, l’inquinamento e la pena di morte. Anche per questo, la risposta propagandistica di Pechino è apparsa debole, quando non rabbiosa, sempre in difesa e incapace di raccontare le ragioni della potenza asiatica.
Nell’intento di invertire questa tendenza sicuramente hanno contribuito molto i tanti “Centri Confucio” sparsi per il mondo ma di recente, al di là della recente operazione di “Voice of China”, si può senza dubbio registrare un nuovo approccio dei media cinesi nello scenario informativo internazionale.
Ci sono alcune zone del mondo dove il lavoro degli operatori dell’informazione di Pechino ha già raggiunto importanti risultati: in Africa, ad esempio, la potenza di fuoco cinese è impressionante e non solo i media sono in grado di raddrizzare le informazioni sulla Cina ma addirittura di dettare le agende dei media locali e nazionali, grazie a una presenza capillare.
Stiamo parlando infatti di un Paese che all’interno di “Voice of China” — che riecheggia la “Voice of America” di Washington creata nel secondo dopoguerra — raggrupperà, come spesso accade con il gigante asiatico, numeri di un certo rilievo. La televisione di stato Cctv, infatti, ha attualmente più di 70 uffici all’estero, mentre China Radio International trasmette in oltre 60 lingue. E chissà che questa volta la Cina non entri anche nei nostri riferimenti culturali, oltre che nella nostra vita economica.
di Simone Pieranni
[Pubblicato su Eastwest]