Con i crediti sociali la Cina impone prove di fedeltà alle aziende straniere

In Cina, Economia, Politica e Società, Uncategorized by Simone Pieranni

 

Il sistema dei social credit cinesi potrebbe addirittura ledere la sovranità di altri Stati, nel momento in cui richiede specifiche gradite a Pechino per operare sul territorio cinese. Si tratta di un’accusa recente, sviluppata in diversi report, tesa a mettere in guardia la comunità internazionale dall’opera di incrocio dei dati che la Cina sta sviluppando.

Il confine tra obbligo e autocensura creato dalla potenza del soft power cinese è piuttosto labile, ma di sicuro il sistema di Pechino mira a uniformare il comportamento di tutte le aziende che hanno a che fare con le leggi cinesi: approfittando di questo sistema la Cina finisce per richiedere prove di fedeltà che travalicano il solo — ovvio e necessario come accade in ogni Paese — rispetto delle regole stabilite sul territorio cinese.

Con il sistema dei crediti sociali la Cina — secondo le intenzioni espresse dal governo di Pechino — mira a creare un sistema armonioso e di reciproca fiducia tra cittadini e aziende. All’interno del sistema, infatti, vengono profilati i comportamenti tanto delle singole persone, quanto delle aziende. Attraverso l’incrocio di Big Data che tengono conto dei comportamenti individuali e aziendali, si stabilisce così quanto virtuoso sia il singolo o una società: se il punteggio associato al codice è positivo si hanno dei vantaggi, se è negativo si hanno degli svantaggi. Su eastwest.eu ci siamo occupati di questo tema in due diverse puntate.

I criteri con i quali questi profili vengono stilati non sono ancora molto chiari e sono tutt’ora in via di definizione. Per ora si sa che — ad esempio — al profilo individuale di ogni cittadino, vengono agganciati i suoi comportamenti tenuti nel corso del tempo in merito a questioni di natura fiscale, amministrativa e penale. In questo modo, chi si comporta bene — paga le tasse, le multe, non ha pendenza con la giustizia amministrativa e penale — può usufruire di vantaggi nelle prenotazioni di servizi, dai biglietti dei treni a — in alcune zone — servizi ospedalieri.

Chi ha invece pendenze di qualche tipo rischia, come è già successo, di non potere acquistare biglietti di aerei o vedere rallentato il proprio iter burocratico nel caso di richiesta di servizi da parte dello Stato. A tutto questo, almeno stando ai rumors, potrebbero anche aggiungersi dati desunti dal proprio comportamento social.

Per quanto riguarda le aziende il meccanismo è simile anche se, come è stato rilevato in alcuni report di recente pubblicazione, questo sistema vuole inserire all’interno dei propri database anche le aziende straniere che operano all’interno della Cina.

Secondo Samatha Hoffman, autrice del report Social credits, Technology-enhanced authoritarian control with global consequences (giugno 2018) «i social credit sono già utilizzati per costringere le imprese a soddisfare le richieste politiche del Partito comunista cinese. (…) Il sistema influirà sulle imprese internazionali e sulle comunità cinesi all’estero e potrebbe interferire direttamente nella sovranità di altre nazioni. La prova di questa portata è stata vista di recente quando l’amministrazione dell’aviazione civile cinese ha accusato le compagnie aeree internazionali di “grave disonestà” per presunte violazioni delle leggi cinesi quando hanno elencato Taiwan, Hong Kong e Macao sui loro siti internazionali».

Nelle settimane scorse dal Giappone era giunta proprio una notizia la cui motivazione potrebbe risiedere nel sistema dei social credit. La compagnia aerea nazionale di Tokyo ha infatti cambiato la formulazione di Taiwan nel proprio sito in cinese, definendola “Taiwan China”. Scrivere solo Taiwan, significa, per Pechino, riconoscere una sorta di indipendenza di un’isola che Pechino, in nome della teoria di “una sola Cina”, considera una propria provincia. E come tale, vuole che tutto il mondo si adegui o che quanto meno si adegu la comunità business che opera in Cina.

Hoffman, nel suo report, ha portato altri esempi: secondo la ricercatrice di Canberra le autorità cinesi avrebbero esercitato pressioni «sulle compagnie aeree internazionali negli Stati Uniti e in Australia per utilizzare la terminologia preferita di Pechino per fare riferimento a Taiwan e Hong Kong»; si tratterebbe di «esempi di alto profilo di questa nuova estensione delle regole del sistema di credito sociale alle società straniere». Il sistema dei social credit, in pratica, «è stato usato specificamente in questi casi per costringere le compagnie aeree internazionali a riconoscere e ad adottare la versione della verità del Pcc, e quindi a reprimere le prospettive alternative su Taiwan».

Da quest’anno tutte le società — anche quelle straniere — che hanno una licenza commerciale in Cina sono state introdotte nel sistema (con un codice identificativo di 18 cifre), così come le persone fisiche (ci sarà da capire poi se questo varrà anche per gli stranieri con visti che permettono una residenza estesa in Cina, come nel caso dei visti di lavoro). Attraverso questo numero di 18 cifre, «il governo cinese — scrive Hoffman — tiene traccia di tutte le attività commerciali, segnalando le trasgressioni sul proprio sistema nazionale». Le aziende in questo modo «non hanno altra scelta che conformarsi se vogliono continuare a fare affari in Cina».

E questo sistema potrebbe estendersi anche a ong, sindacati e organizzazioni sociali.

È evidente che il limite tra richiesta e obbligo non è chiarissimo, come spesso accade con la Cina: le aziende potrebbero rispettare tutte le leggi cinesi, ma procedere con i propri metodi sui siti internet i cui server — magari — neanche risiedono in Cina (quello della compagnia aerea giapponese, ad esempio, è lecito pensare possa risiedere in Giappone). In questo caso, dunque, più che di coercizione da parte di Pechino, potremmo essere di fronte a uno zelo da parte di aziende che non vogliono avere problemi nel proprio business con la Cina.

Aziende che in alcuni casi, come in quello giapponese, agiscono in maniera differente dal proprio governo, su posizioni intransigenti, per diversi motivi, con la Cina. Si tratta dello stesso dilemma nel quale si trovano milioni di cinesi: affrontare il rischio di trovarsi di fronte un governo iracondo per mancanze minime, o decidere di autocensurarsi per non avere problemi con un sistema giudiziario che non sembra garantire, eventualmente in fasi successive, le necessarie garanzie per proteggersi.

Infine, a queste considerazioni ne vanno aggiunte altre, con riferimento specifico al report di Hoffman. In Australia — infatti — le relazioni con la Cina e con la comunità cinese sono state ondivaghe e media e opinione pubblica hanno più volte accusato la Cina di interferenze. Hoffman infatti sottolinea due aspetti importanti nel suo report: in primo luogo che i governi dovrebbero essere meno accondiscendenti con la Cina e porsi in modo più rilevante la questione dei social credit. In secondo luogo mette in guardia anche sull’estensione dei social credit ai cinesi all’estero; in questo modo, secondo Hoffman, Pechino potrebbe decidere di interferire in modo piuttosto chiaro con i sistemi giudiziari stranieri.

 

[Pubblicato su Eastwest]