Si parla tanto di fazioni interne al PCC, specie in prossimità del prossimo congresso. Eppure le divisi interne al Partito sembrano nascere da dinamiche più famigliari che politiche. Con importanti analogie storiche. L’analisi di China Files a pochi giorni dal Congresso del PCC. Si può dire che siamo alle battute finali. Come abbiamo già più volte ripetuto, nessuno sa cosa succederà, ma tanti movimenti sotterranei, che determineranno i nomi dei sette (o nove) che siederanno nel Comitato Permanente del PCC, si affacciano in superficie: possibili riforme della Costituzione, suggerimenti sulla forma di governo singaporeana a Xi Jinping, addirittura l’eliminazione, o meglio il mancato riferimento, del pensiero di Mao nello Statuto del Partito. E’ in gioco una guerra in cui ognuno prova a portare a casa qualcosa.
Secondo le fonti della Reuters il futuro assetto politico sarebbe nato da un accordo tra i tre che al momento risultano più influenti: Jiang Zemin, a dimostrare come il potere in Cina possa anche durare informalmente a lungo, Hu Jintao, il presidente uscente che cerca di tracciare lo stesso solco del vecchio Jiang e Xi Jinping, il presidente in pectore, abile equilibrista apparentemente pronto a mediare e poco altro, talmente scarne sono le informazioni circa la sua “visione” politica d’insieme.
Si tratta di leggere gli eventi, provando a immaginare una buona parte delle mosse politiche. Ad esempio l’eventuale eliminazione del pensiero di Mao. Più che una boutade, o una reale volontà, potrebbe essere un segnale di scambio politico in corso: mancano ancora alcuni nomi e si potrebbe andare ad una mediazione. La parte che noi definiamo “riformista”, potrebbe giocarsi la carta Mao, per fare capire ai suoi avversari di essere disposta a fare terra bruciata del passato, costringendoli magari ad accettare un compromesso su alcuni nomi in ballo. Come a dire: possiamo anche arrivare all’estremo rimedio.
Riformisti e “nuova sinistra”: due apparenti fazioni, che in realtà si ritrovano in queste “etichette” specie a causa della stampa internazionale, che esprime così la volontà di rendere chiari alcuni percorsi che invece nascondono più di un dubbio. Le fazioni interne al PCC – infatti – sembrano essere contraddistinte più da legami di affinità famigliari, storiche, di amicizie, di solidarietà, che su distinguo politici evidenti. C’è sicuramente chi vede ancora nello stato la guida totale dell’economia, per dirla in soldoni, e chi invece sarebbe per dare più credito ai privati. Battaglia che si riverbera nell’attuale scontro tra grandi compagnie di stato e privati che scalpitano.
Ma nel profondo di ogni funzionario del PCC c’è la centralità del Partito e la volontà di mantenere lo status quo. Se la bilancia, dunque, andrà a vantaggio dell’una o dell’altra strategia economica, lo sarà in modo graduale, nel tempo, con le ovvie caratteristiche cinesi. Chi si aspetta qualcosa di diverso, probabilmente sbaglia. Il trionfo dei riformisti – se avverrà – non porterà a nessuna rivoluzione. Nemmeno se dovesse essere sacrificato Mao: si tratterebbe d’altronde di legittimare quanto già accade da trent’anni quando Deng si riprese il Partito e mise Mao in un ripostiglio di memoria, neanche troppo comodo.
Quando parliamo di fazioni quindi dovremmo sempre ricordare quanto la storia, il passato, incidano ancora profondamente sui legami politici cinesi. Anche perché nella storia recente, alcuni atti, alcuni eventi, sembrano ripetersi seguendo un canovaccio che ricade nel substrato più profondo della cultura cinese. E perché alcuni messaggi, ormai da tempo, sono riservati solo ad una certa elite. Sono giochi retorici e di parole, come quello con cui Zhou Enlai seppe trasformare una battaglia contro il suo potere ("criticare Confucio"), in una condanna di Lin Biao e isuoi avversari politici, nella nota campagna del 1973, “criticare Lin Biao, criticare Confucio” (pi Lin pi Kong).
Allo stesso tempo, alcuni eventi ci riportano ad analogie evidenti con la realtà. Nel 1954 il Partito Comunista epurò due suoi membri ormai influenti: Gao Gang e Rao Shushi. Si tratta di fatti avvolti nel mistero, così come la morte di Lin Biao, ma che richiamano all’attuale situazione di Bo Xilai. Secondo Marie Claire Bergere, storica della Cina contemporanea, l’8° congresso del PCC del 1956, fu quello che per primo segnalò l’esistenza di una frattura molto intensa all’interno del Partito. C’era Mao, il che significava avere sul proscenio una persona dotata di straordinaria personalità e molto dipese da lui, ma per la prima volta la compattezza del Partito vacillò.
E da lì presero il via i sentieri che tra uno scossone e l’altro hanno portato le fazioni interne del PCC a rincorrersi per tutta la storia contemporanea cinese. Gao Gang e Rao Shushi, secondo molti storici, vennero epurati perché troppo filo sovietici, in un momento che avrebbe preceduto una rottura storica tra Cina e allora URSS. In realtà i due, dopo esperienze diverse nel corso della Rivoluzione, avevano saputo guadagnare spazi molto indipendenti nell’amministrazione di Shanghai e della Manciuria. Una forza economica e politica che parve “troppa” ai leader radunati a Pechino, impegnati a giocarsi il destino economico e politico del Paese. Una intraprendenza del duo Gao – Rao, alla stessa stregua di Bo Xilai, unita ad una visione filo sovietica.
Ma l’evizione di Gao Gang, come scrive la Bergere, “puniva un’ambizione personale esacerbata, e l’avrebbe spinto a rivendicare le funzioni di Liu Shaoqi e Zhou Enlai”. Cosa voleva Gao Gang? Ribadire la sua teoria, ovvero l’allora “primato delle basi rivoluzionarie e dell’esercito” sulle “zone bianche” attraverso cui consolidare una sua posizione e gettare il discredito sui suoi rivali politici. Non fosse storia, si potrebbe – oggi – associare queste ambizioni, a quelle di Bo. Giunte in un ennesimo momento di spaccatura e contrasto, tra le tante fazioni “famigliari” e “solidaristiche” del PCC.
All’epoca vinse Mao. Ma dieci anni dopo arrivò lo sconquasso della Rivoluzione Culturale.
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