La guerra dei media è arrivata anche in Asia, dove equilibri geopolitici e sovranismi digitali si intrecciano creando un ricettacolo di zone grigie e disinformazione. Anche con i social media a fare da finestra sul mondo, quello raccontato da alcuni paesi asiatici sul conflitto tra Mosca e Kiev è un film diverso da quello occidentale. Nel post-Ucraina, una solida certezza: la memoria storica dell’Asia non sarà univoca. L’articolo fa parte dell’ebook numero 12 di China Files, dedicato all’impatto della guerra in Ucraina sul continente asiatico. Qui per sapere come ottenerlo.
La storia la scrive chi vince. Ma del conflitto tra Russia e Ucraina anche l’Asia sta stilando la sua versione. Non solo economia e geopolitica, il riverbero dello scontro tra Mosca e Kiev nel continente asiatico è percepibile nell’intensificarsi di un conflitto parallelo: quello tra retorica e informazione. La prima, portata avanti come scudo dai governi asiatici per mantenere una cauta neutralità. La seconda, imbrigliata tra propaganda e disinformazione e circuita dai sempre più pervasivi sistemi di controllo dell’informazione digitale. Anche con i social media a fare da finestra sul mondo, il racconto del conflitto tra Mosca e Kiev in Asia sembra infatti variare a seconda dell’interlocutore, rimarcando una tendenza che vede i paesi asiatici convivere senza parlare la stessa lingua, intenti a costruire ognuno la propria versione dei fatti. La storia la scrive chi vince. Ma in questo caso non è una sola.
Nella pluralità di narrazioni che circondano la guerra, la copertura mediatica dei partner della Nato nell’Asia-Pacifico si è mostrata in linea con il discorso occidentale di supporto all’Ucraina. Un racconto che ha trovato riflesso anche nella reazione popolare. Sia offline, come dimostrato dalle proteste in favore di Kiev che hanno avuto luogo in diverse città in Giappone e Corea del Sud, sia online, con gli appelli contro “la violenta aggressione russa” e le donazioni a favore dell’Ucraina da parte di personaggi del mondo dello spettacolo quali l’attrice Lee Young-ae e la star del Kpop Yeri.
Sulla sponda opposta del Mar cinese orientale invece, la distinzione tra “buoni” e “cattivi” non è così lampante. In Cina, la rappresentazione del conflitto ucraino nei media tradizionali si è fatta portavoce della neutralità a tinte antiamericane adottata ai vertici del paese. E anche sui social la narrazione del conflitto si è mostrata altamente polarizzata. Secondo Pechino, il conflitto tra Mosca e Kiev è responsabilità degli Stati Uniti. Secondo i nazionalisti del web cinese, l’intervento militare voluto da Vladimir Putin è giustificato. Nella copertura mediatica della guerra, la Repubblica Popolare Cinese diffonde la sua personale interpretazione, fatta di più persone e meno bombe, di più Stati Uniti e meno Ucraina. Una narrazione che glissa sulle atrocità della guerra come il massacro di Bucha per non pestare i piedi alla Russia, ma che non manca di rimarcare il comportamento “irresponsabile” degli Usa. Sul web cinese invece, il parere di chi esprime empatia per l’Ucraina viene sfavorito dall’algoritmo dei social, o censurato se troppo critico della Russia. È quanto successo al cittadino cinese di Odessa, i cui video su Wechat e Youtube sono stati bloccati dopo aver invitato i connazionali a “non supportare i russi di Putin”. Scomparsi anche i commenti ostili alla guerra delle celebrità cinesi Jin Xing e Ke Lan, che su Weibo si erano espresse in modo critico contro il presidente russo. Nella pragmatica neutralità voluta da Pechino, i contenuti che denunciano l’egemonia di Washington possono invece circolare liberamente, che si tratti di rievocare l’attacco della Nato all’ambasciata cinese di Belgrado del 1999 o di diffondere sprazzi di propaganda russa come la teoria complottista dei 26 laboratori biologici militari statunitensi in Ucraina. Tutto per ribadire l’inaffidabilità degli Usa. Tutto per raccontare la propria versione della storia.
Anche in Vietnam, la neutralità dichiarata dal Partito Comunista Vietnamita si scontra con la polarizzazione del web. Dove testate nazionali come il Than Nien, il Lao Dong e il Tuoi Tre si concentrano sugli effetti economici della guerra per chiedere un ritorno alla stabilità senza condannare apertamente Mosca, i social media si sono invece divisi tra voci filorusse e messaggi in supporto all’Ucraina. Ma a prevalere è il filone pro-Russia e diversi analisti rimangono scettici sulla non ingerenza del governo rispetto a questo sentimento online. Il canale televisivo TV24 per esempio noto per videoo Youtube che rimandano alle responsabilità occidentali con titoli quali “La guerra in Ucraina mostra la vera faccia dell’Occidente” è di proprietà dell’azienda supportata dal governo vietnamita VTC. Facebook invece è diventato una vera e propria cassa di risonanza per la propaganda russa, grazie a gruppi dai nomi altisonanti come “Nostalgia per l’Unione Sovietica” (29mila membri), “C’era una volta il CCCP” (quasi 14mila membri) e “Associazione di Hanoi per l’amicizia Vietnam-Russia” (più di 12mila membri), ma anche l’account privato Force47 East Laos (143mila followers), nome che ricorda l’armata di soldati che sui social difende il Pcv. Anche qui, il supporto alla Russia è giustificato in chiave anti americana e i tentativi di vlogger e influencer ucraini di raccontare l’orrore della guerra viene accolto con incredulità o etichettato come disinformazione. Sempre nel Sud-Est asiatico, la lotta ucraina ha trovato negli oppositori birmani un pubblico empatico, in netto contrasto con la giunta militare che invece si è apertamente schierata a favore dell’invasione russa.
Ma l’ambiguità narrativa sulla guerra in Ucraina arriva anche in paesi ritenuti democratici come l’India. Complice il forte legame tra Mosca e Nuova Delhi, la propaganda del Cremlino e il supporto alla Russia hanno trovato ampio spazio sui media indiani. Su Twitter per esempio l’hashtag #IStandWithPutin è stato ampiamente diffuso nelle prime fasi del conflitto, mentre i media tradizionali hanno focalizzato la loro attenzione sul rimpatrio dei 18mila studenti bloccati a Kharkiv senza mai menzionare temi legati alla violazione dei diritti umani e senza dare spazio ai ripetuti appelli del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Anche avendo accesso a canali di informazione internazionali, l’opinione pubblica indiana è fortemente modellata sui social, che rimangono altamente localizzati e sempre più sottomessi alle direttive del governo. Ad accomunare chi in Asia ha un racconto polarizzato in chiave antiamericana del conflitto in Ucraina c’è infatti la tendenza di diversi governi a rafforzare la normativa sulla disinformazione. La Cina ha la recete legge sugli algoritmi, che unitamente alla legge sulla sicurezza dei dati gestisce quali contenuti sono ritenuti un pericolo per la “sicurezza nazionale”. Il Cybersecurity Act vietnamita identifica come illegittimi i commenti online di individui con “intenti maliziosi”o che “mettono a rischio la sicurezza statale”. Mentre in India, dove solo nel 2021 c’è stato un record di shutdown di Internet per questioni legate alla sicurezza nazionale, l’esecutivo ha accelerato la procedura per l’approvazione di nuove leggi contro la falsa informazione online. Un’arma a doppio taglio che nel volere prevenire le fake news finisce per far riecheggiare online solamente le opinioni approvate dai vertici governativi. Compresa la posizione da prendere rispetto a un conflitto internazionale.
La guerra in Ucraina sta dimostrando ancora una volta che la storia non è mai finita. Così come che l’Asia sfugge, tra tante sfaccettature narrative, al racconto universale immaginato altrove.
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.