Sono trascorsi ormai vent’anni da quando l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO) venne istituzionalizzata, il 15 giugno del 2001, tra Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, dopo un “periodo di prova” durato ben cinque anni. Quest’anno i festeggiamenti per il ventennale dell’Organizzazione sono stati quasi del tutto inesistenti poiché provati, da una parte, dalla pandemia da COVID-19 che ha costretto la SCO a svolgere gli ultimi summit annuali soltanto in forma virtuale e, dall’altra, dalle dinamiche di cooperazione che hanno caratterizzato la regione nell’ultimo periodo.
Cinque, sei, otto
Sebbene il 2001 abbia segnalato il momento dell’istituzionalizzazione della SCO, l’Organizzazione nasce da un “esperimento” lanciato nel 1996 dall’allora Presidente della Repubblica Popolare Cinese Jiang Zemin e da quello della Federazione Russa Boris Yeltsin.
Agli albori della SCO, Cina e Russia erano infatti affiancate in quello che allora prendeva il nome di “Shanghai Five” (五国 wǔ guó, i “cinque paesi”) esclusivamente dalle ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale che condividevano un confine con la Cina (ossia Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan). All’epoca, infatti, lo Shanghai Five era, per la Cina, uno strumento informale di supporto agli sforzi del Presidente Jiang, volti a normalizzare i confini occidentali del paese, rimasti “indefiniti” in seguito alla caduta dell’URSS. In questo modo, Jiang mirava ad arginare quei sentimenti secessionisti che ciclicamente caratterizzavano le regioni occidentali cinesi (e, soprattutto, il Xinjiang) e che rischiavano di ritrovare forza di fronte all’acquisizione della sovranità nazionale da parte delle ex-repubbliche sovietiche. Con l’istituzionalizzazione del 2001, non solo la SCO ha aperto anche a paesi dell’area che non condividono alcun confine con la Cina (per esempio, l’Uzbekistan che è entrato nell’Organizzazione nel 2002), ma anche il mandato della SCO è stato espanso così da includere obiettivi di cooperazione in ambito di sicurezza e anti-terrorismo. Non a caso, sono solo due le strutture permanenti ad essere state istituite all’interno dell’Organizzazione in questo periodo: un Segretariato (con sede a Pechino) e la “Struttura Regionale per l’Anti-Terrorismo” (RATS) che ha sede a Tashkent, la capitale uzbeka.
Dal 2002 in poi la conformazione della SCO è quindi rimasta pressoché la stessa. Solo nel 2017 fanno il proprio ingresso congiunto l’India e il Pakistan espandendo la portata dell’Organizzazione anche verso l’Asia meridionale. L’Iran, membro osservatore dal 2005, da ormai diversi anni propone la propria candidatura come membro a tutti gli effetti: un segnale di come la SCO abbia ormai perso il tradizionale ruolo di strumento cooperativo prettamente centrasiatico e abbia sposato la propria natura di organizzazione trans-sub-regionale anche verso l’Asia occidentale.
Verso un protagonismo cinese
Lo Shanghai Five prima e la SCO poi si concretizzano in seguito alla necessità della Cina di trovare una “guida” che condividesse conoscenze e competenze pregresse di collaborazione con l’Asia Centrale—un’area che era stata storicamente sotto il dominio esclusivo dell’URSS. La Russia era quindi il candidato ideale perché, contrariamente ad altri ex-territori sovietici come per esempio il Caucaso, aveva continuato a svolgere un ruolo di primo piano in Asia Centrale anche dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica, sia da un punto di vista politico sia economico. Sotto la guida russa, inoltre, la Cina riusciva ad evitare di essere percepita come uno sfidante alla sfera di influenza di Mosca.
Alla luce di queste necessità/criticità, la SCO è rimasto un framework cooperativo a doppia leadership fino al 2013, con la Cina concentrata nel portare avanti una cooperazione di tipo economico e culturale e la Russia impegnata invece nello sviluppo di partnership di sicurezza. Non è un caso, infatti, se, all’interno dell’Organizzazione, è stata proprio la volontà di Mosca di dare alla SCO un’impronta marcatamente anti-americana ad aver trovato l’opposizione della Cina che, al contrario, ha costantemente promosso l’ideale di un’Organizzazione il più possibile estranea alla competizione in atto nel sistema internazionale.
Con il lancio della “Nuova Via della Seta” dalle aule dell’Università Nazarbayev di Nur-Sultan in Kazakistan nel settembre 2013, il Presidente cinese Xi Jinping separa la propria strategia per l’Asia Centrale da quella dei suoi predecessori, cercando di sviluppare una relazione con l’area che fosse sempre meno legata al multilateralismo. Con la Nuova Via della Seta, infatti, i paesi dell’area centrasiatica si trasformano in un crocevia strategico per le relazioni commerciali globali di Pechino. Alla primavera del 2021, la regione aveva infatti ricevuto 25.5 miliardi di dollari dalla Cina volti a portare avanti 42 progetti, una cifra che comprende finanziamenti cinesi afferenti sia ai finanziamenti della Nuova Via della Seta sia all’ambito business-to-business. Circa la metà di questi fondi è stata utilizzata per avviare progetti in ambito energetico, mentre poco più del venti percento è stato destinato al settore dei trasporti. L’enfasi su questi due settori ben rappresenta le priorità della strategia centrasiatica di Xi che si concentrano sul mantenimento della sicurezza energetica cinese e sulla diversificazione delle rotte dell’export.
In questo senso, l’approccio di Pechino alla regione si è gradualmente spostato verso una strategia che vede la Cina come polo principe delle relazioni con l’Asia Centrale: dopo un “tutoraggio” russo di circa sedici anni, infatti, Pechino ha acquisito livelli di conoscenza e competenza sufficienti per muoversi in autonomia nell’area. Tuttavia, Cina e Russia stanno oggi vivendo un’ampia convergenza di interessi che ha fatto sì che i due paesi superassero la sfiducia che avrebbe potuto far degenerare le relazioni all’instaurazione della fase xiista di protagonismo cinese in Asia Centrale. Gli obiettivi della Cina, infatti, sono radicati nell’utilitarismo, pertanto l’obiettivo russo di consolidamento della propria influenza per riconquistare un ruolo primario nel sistema internazionale rimane pressoché intatto.
Di Giulia Sciorati
(Università di Trento e ISPI)