Dall’annuncio del Presidente Joe Biden dell’imminente ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, una delle domande più pressanti sul futuro del paese ha riguardato le relazioni con la Cina.
Sebbene l’Afghanistan ricopra una posizione rilevante nella lista delle priorità di Zhongnanhai, la possibilità che Pechino subentri a pieno titolo nella questione afghana è inibita da una serie di condizionamenti strutturali imprescindibili, primo fra tutti l’assetto tradizionale dei principi di politica estera cinese. Il “principio di non interferenza negli affari interni” – baluardo dell’avanzata cinese nel mondo e, allo stesso tempo, difesa contro valutazioni ed espansionismi dall’estero – ha già ripetutamente richiesto una buona dose di creatività al paese per adattarsi all’attivismo internazionale sempre più incalzante di Pechino. Esempio chiave, a questo proposito, è senza dubbio la partecipazione della Cina ad attività di peacekeeping in Africa giustificata dalla clausola che prevede che la presenza delle forze ONU sia subordinata al consenso di tutte le parti in causa. Non a caso, Fan Hongda, docente dell’Università di Studi Internazionali di Shanghai, in una recente intervista con il Financial Times, ha sottolineato come la scesa in campo di forze militari cinesi in Afghanistan sarebbe possibile solo nel contesto di una missione ONU.
Un esercizio simile a quello messo in atto nei confronti del peacekeeping sul continente africano sarebbe quindi ancor più necessario per giustificare una presenza militare cinese in Afghanistan e, come ben spiegato da Eva Seiwert della Freie Universität di Berlino, oggi “è altamente improbabile che Pechino si proponga di riempire il ‘vuoto militare’ lasciato dagli Stati Uniti … ci sono poche ragioni per credere che l’impegno di Pechino nel paese cresca o cambi sensibilmente.” La Cina continua infatti a supportare una soluzione politica e non militare al conflitto afghano, proponendosi ciclicamente come ospite degli incontri di dialogo tra il governo afghano e le forze talebane.
La recente agenda del Ministro degli esteri Wang Yi, per esempio, mostra con chiarezza quanto la Cina stia cercando di portare avanti una strategia per l’Afghanistan poggiata su alcuni pilastri fondamentali, legati a quelle che sono le grandi preoccupazioni per il paese. In primis, la scommessa di Zhongnanhai vede il rapido ritorno ad un governo islamico in Afghanistan in seguito all’allontanamento delle forze statunitensi. Lo scorso maggio, in un documento che contestualizzava la posizione cinese nei confronti del paese, Wang ha infatti affermato che Pechino non avrebbero potuto che augurarsi che “il futuro governo afghano sarebbe stato in grado di adottare politiche islamiche moderate ed evitare tendenze estremiste.” Appare chiaro, quindi, quanto i tentativi di dialogo con le forze talebane (triangolate da un’ingombrante presenza del tradizionale alleato pachistano) siano volti a far avanzare gli strumenti classici dell’engagement cinese – commercio e modernizzazione economico-infrastrutturale – così da garantire alla Cina il supporto di una potenziale amministrazione islamica contro le forze secessioniste xinjianghesi presenti in Centrasia. I progetti per l’estensione del “Corridoio economico sino-pakistano” fino a Kabul si inseriscono proprio in questa dinamica.
Contrariamente alle aspettative, è la diffusione a livello regionale dei “tre mali” (ossia, terrorismo, separatismo ed estremismo religioso) che preoccupa Pechino per il potenziale impatto sulla stabilità interna. La possibilità che l’instabilità afghana interessi direttamente la Cina occidentale, infatti, rimane un’ipotesi sostanzialmente remota per le autorità cinesi. Non solo il confine sino-afghano ha un’estensione piuttosto limitata (circa 76 chilometri) ed è caratterizzato da un’area montuosa impervia, ma la Cina è anche riuscita a costituire una serie di collaborazioni militari con Pakistan e Tagikistan che rendono estremamente difficile il passaggio illegale di armi e militanti nel paese.
La strategia per l’Afghanistan di Pechino si prefigge quindi di creare le condizioni affinché la futura classe politica afghana non si isoli politicamente dal vicino asiatico, seppur evitando che la Cina sia coinvolta direttamente come fornitore di sicurezza. Se, dal punto di vista cinese, il processo di pace rimane “a guida e proprietà afghana,” l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO) è identificata come l’organismo multilaterale attraverso cui preservare la stabilità regionale, ed è proprio la SCO che Pechino vorrebbe ricoprisse un ruolo più centrale nelle vicende afghane. Come ricordano i ricercatori Niva Yau e Raffaello Pantucci, rispettivamente della OSCE Academy di Bishkek in Kirghizistan e della Scuola di Studi Internazionali S. Rajaratnam di Singapore, l’atteggiamento scelto dalla Cina nella gestione della questione afghana post-statunitense – sostanzialmente limitato e ancorato a questioni di sicurezza interna – non tiene conto di quelle che sono, invece, le aspettative dei paesi centrasiatici che accoglierebbero di buon grado una Cina “con un ruolo più lungimirante e sostanziale in Afghanistan”.
Di Giulia Sciorati, Università di Trento e ISPI