A big beatiful monster. Così Donald Trump nelle settimane scorse aveva definito l’accordo di «fase uno» sui dazi siglato mercoledì a Washington tra Cina e Usa. «Fase uno» è un’espressione che ammanta di significati quella che è a tutti gli effetti una tregua, più che un avanzamento vero e proprio.
Ma la firma era una necessità per entrambi i paesi, soprattutto per gli Usa. Cosa c’è nell’accordo, vago, è presto detto, tenendo presente che gli elementi più interessanti riguardano le ragioni di questa «svolta» e cosa non c’è all’interno dei documenti firmati.
Gli Stati uniti rinunciano a imporre gli annunciati dazi del 15% su circa 160 miliardi di dollari di prodotti cinesi, Pechino si impegna ad aumentare gli acquisti di una serie di prodotti (che rimarranno nei documenti da considerarsi confidenziali, dunque non resi pubblici) inerenti al settore alimentare, mais, fagioli, riso, pollame, maiale.
Tutto il resto rimarrà uguale, compresi i dazi americani già in vigore (e il segretario del tesoro Usa Mnuchin ha fatto capire che tutto dipenderà dalla Cina e dalla sua volontà a rispettare gli accordi, un modo come un altro per mettere le mani avanti per colpi di testa di Trump).
La vaghezza della «fase uno», che i mercati hanno sottolineato senza particolari entusiasmi, risiede nel fatto che i grandi temi non sono stati affrontati: la questione legata alla tecnologia e quella relativa ai sussidi statali cinesi, ad esempio.
Pechino si impegna a proteggere la proprietà intellettuale made in Usa e a non svalutare la propria moneta (cosa che stava già accadendo da tempo ed evento che ha comunque consentito alla Cina di vedere tolto il proprio nome tra «i manipolatori di moneta» secondo Washington).
Nel corso delle trattative la Cina è parsa sorniona e in attesa; l’unico lampo arrivato da Pechino è stato quello dell’aprile 2019, quando Xi Jinping bloccò il testo dell’accordo in lavorazione tra i due team. Secondo i rumors Xi lo riteneva troppo favorevole agli Usa.
Chi invece aveva bisogno urgentemente di questa firma era Trump; la sua guerra dei dazi contro la Cina, anche analizzandola da più prospettive, è stata un fallimento totale: la bilancia commerciale americana non è migliorata, la Cina ha diminuito le importazioni e Washington è retrocessa a terzo partner commerciale di Pechino, dopo Ue e paesi dell’Asean.
Di fronte al rischio impeachment e soprattutto a una campagna elettorale alle porte, Trump non poteva tralasciare il fatto che le sue sanzioni hanno finito per peggiorare la vita proprio del suo elettorato (da qui la concessione fatta a Pechino di specificare i prodotti alimentari da acquistare, scelta considerata eccessivamente vantaggiosa alla Cina secondo gli osservatori americani). In più, come registra Lucia Tajoli dell’Ispi, «gli ultimi dati registrano una diminuzione dei posti di lavoro in Usa e l’economia americana nel complesso mostra alcuni segni di possibile rallentamento».
Ovviamente anche a Xi Jinping conviene la tregua: benché a ritmi sempre alti (il 6%) la crescita cinese ha risentito delle sanzioni americane; inoltre Xi aveva bisogno di portare a casa qualcosa, proprio come il suo omologo americano.
Hong Kong, le recenti elezioni di Taiwan, la percezione che alla dirigenza cinese stesse sfuggendo di mano qualcosa: percezioni che la leadership del Pcc non può far nuotare troppo a lungo nel complesso mare della propria opinione pubblica.
I dubbi sul futuro sono legittimi: rimane fuori dalla fase uno la parte tecnologica, che è poi quella più determinante nel sancire che ne sarà dei rapporti tra le due principali potenze nell’immediato futuro.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.