Le mosse avventuriste del presidente-eletto statunitense, che mette in dubbio il principio di «una sola Cina», lasciano i cinesi più stupiti che offesi: creare tensione non giova né alla Cina, né a Taiwan, né tanto meno agli Usa. E allora, perché lo fa? Nel 2006 all’Università del popolo di Pechino conobbi uno studente molto sveglio durante un sit-in di lavoratori immigrati – muratori all’interno del campus – che protestavano perché non erano adeguatamente pagati. Tra decine di suoi coetanei che passavano là davanti indifferenti, Zhang era l’unico che si era interessato a quanto stava accadendo e, sorridendo, sfidava le guardie che volevano impedirci di scattare fotografie. La sera cenammo insieme e io non vedevo l’ora di parlare con lui dei problemi sociali della nuova Cina, ma la prima cosa che mi chiese fu: “Cosa si dice in occidente della questione di Taiwan?”. Imbarazzo. Come spiegare che in occidente non si sa bene neanche dove stia? La regola delle tre T è conosciuta da tutti coloro che si occupano d’informazione in Cina: Tibet, Tiananmen e Taiwan sono i tre tabù che attirano la censura.
Non è che un giornalista, un blogger, un commentatore non ne possa parlarne, ma deve farlo non allontanandosi troppo dalla versione ufficiale. Per esempio, il Tibet è “parte della Cina da tempo immemore” e Tiananmen è stata “un grave disturbo politico (fino a poco tempo fa un “movimento controrivoluzionario”) che se non fosse stato represso avrebbe nuociuto alla crescita economica della Cina”. Quanto a Taiwan, quello è il tabù di più lunga data. La definizione ufficiale è “provincia separatista”. Continua su Internazionale