Ieri la Cina ha fatto atterrare il suo rover Zhurong su Marte. Un grande successo, salutato in pompa magna dalla stampa nazionale. Dietro questa performance spaziale, però, c’è una grande solitudine a livello internazionale, concretizzatasi, per di più, nei mesi che precedono i festeggiamenti per il centenario del Pcc a luglio.
IN QUESTA POSIZIONE la Cina è arrivata al termine di un periodo partito in tutt’altro modo. La pandemia ha infatti riservato un destino particolare alla percezione occidentale della Cina. Dopo lo scoppio dell’epidemia non pochi hanno indicato nel modello di gestione cinese del Covid un esempio da perseguire, quanto meno nell’organizzazione delle misure per contenere il virus. E in effetti un po’ tutti i paesi hanno ripetuto quanto visto per la prima volta in Cina: lockdown, tracciamento, mascherine. Grazie anche ai report positivi dell’Oms, la Cina era riuscita a difendersi dalle accuse di Trump e della sua amministrazione sul ben noto «China virus».
IN GENERALE NEI CONFRONTI di Pechino c’era una sorta di accondiscendenza che – da parte di chi si occupa di Cina – non poteva che essere osservata con sospetto: il paese da sempre dà grande dimostrazione di efficienza, ha una sua «opinione pubblica» in grado di sostenere le decisioni del Partito, ma racchiude al proprio interno alcune dinamiche comuni alle società occidentali – sfruttamento dei lavoratori, derive di sorveglianza di massa del proprio impianto tecnologico – a cui si aggiunge una leadership, quella di Xi, che ha cambiato non poco il clima di dibattito e di confronto politico, annullando quelle aperture che si erano registrate nel decennio precedente (che se confrontato all’era attuale appare come un’epoca di straordinaria vitalità del dibattito pubblico cinese).
CON L’ELEZIONE DI BIDEN, però, tutto è cambiato, forzando in senso inverso i peana riservati alla Cina solo qualche mese prima. L’Unione europea costituisce un esempio perfetto: a dicembre del 2020 la Commissione e Pechino dichiarano di aver stipulato un patto commerciale (il Cai) capace di rendere effettiva quella richiesta di reciprocità che da tempo si fa alla Cina. Per Pechino è stato quello il momento più luminoso dell’ultimo periodo: una vittoria politica che sembrava garantire alla Cina un riparo dal sicuro ritorno degli Usa sullo scacchiere europeo.
E infatti: Biden ha raccolto attorno a sé gli alleati, ha lanciato una campagna internazionale chiedendo conto delle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang – definendole «genocidio» – tornando a chiedere alla Ue di compiere una scelta: o con Washington o con Pechino. E l’Ue ha risposto indirettamente con le sanzioni, cui sono seguite le contro sanzioni cinesi. Oggi come oggi il Cai è impensabile (era comunque necessaria un’approvazione del parlamento Ue, ipotesi piuttosto remota già prima del riposizionamento europeo), così come da Pechino si considera in sostanza chiusa, almeno per il momento, la partita europea.
ANALOGAMENTE IN ASIA non è che le cose procedano meglio: Biden ha riportato all’ovile americano anche il Giappone, ci ha provato con la Corea del Sud (più titubante) e – proprio come Trump – ha fatto di Taiwan e del mar cinese meridionale i punti nevralgici attorno a cui rinsaldare le alleanze asiatiche.
Come se non bastasse in Asia ha cominciato a muoversi con una certa baldanza anche la Gran Bretagna: nel post Brexit Johnson ha disegnato il progetto di «Global Britain» attorno al cosiddetto «tilt to Asia», un’inclinazione che vede Londra attiva alla ricerca di trattati commerciali, proprio come stanno facendo Francia e Germania, per cercare alternative alla ingombrante presenza cinese, giocando su rivalità storiche che avevano portato molti paesi a riferirsi a Pechino in mancanza di solide garanzie da parte per lo più degli Usa.
A LIVELLO INTERNO XI appare in una botte di ferro: l’economia procede, il censimento ha evidenziato problematiche che il partito conosce da tempo e che produrranno riforme importanti, come quella delle pensioni. Rimane però il tarlo: l’attuale presidenza aveva «scartato» rispetto al passato soprattutto nella postura internazionale – vedi il progetto della Nuova via della seta-: un «sogno» che ad ora, all’esterno, sembra decisamente in difficoltà.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.