Con l’incriminazione per corruzione del generale Gu Junshan, Xi Jinping comincia a far pulizia anche nelle fila dell’Esercito di liberazione. Nel frattempo per indagare l’ex zar della sicurezza Zhou Yongkang si sono confiscati 10,5 miliardi di euro a parenti e sodali. Ma gli ex presidenti Jiang Zemin e Hu Jintao avvertono che forse la lotta alla corruzione si sta spingendo oltre, mettendo in pericolo l’esistenza stessa del Pcc. Ripercorriamo la sua storia per capire come si sono arricchite le élite cinesi.
C’è un proverbio cinese che recita: “quando un uomo conquista il potere, i suoi polli e suoi cani conquistano il paradiso”. Tanto più nella Repubblica popolare, dove le più alte gerarchie del Partito coincidono con le più alte cariche statali che a loro volta decidono appalti e organigrammi delle imprese pubbliche. E dove la trasparenza non è praticata, in nessun campo.
È in questo contesto che le guanxi, le relazioni che intercorrono tra due o più persone, diventano la base delle dinamiche sociali, politiche ed economiche. E si ripercuotono sulla vita politica e economica dello Stato, tanto che ormai c’è tutta una letteratura al riguardo. Le si dividono in tre grandi fasce: qinren (famigliari), shuren (conoscenti), shengren (estranei). Di fatto sostituiscono il supporto statale e prosperano in un ambiente in cui è assente il concetto di competizione sana. Ovviamente, le guanxi famigliari sono quelle che contano di più.
I compagni di Mao Zedong non erano tanti, e sono i loro discendenti a dominare oggi la scena politica e economica. Come non si stanca mai di ripetere il professore Victor Shih, che si è specializzato proprio sui legami tra la finanza e la politica cinese, per aprire aziende o per firmare contratti di appalto da parte delle aziende di stato l’aristocrazia rossa si è sempre servita di persone fidate. E queste coincidono frequentemente con i membri delle loro famiglie estese. Quando trent’anni fa Deng Xiaoping ha passo passo aperto l’economia socialista al mercato l’aveva in qualche modo anticipato: “lasciate che alcuni si arricchiscano prima”. E ovviamente chi aveva le guanxi migliori è stato il primo ad arricchirsi.
Prima ancora del report investigativo sui beni offshore dei famigliari della cosiddetta “aristocrazia rossa”, già l’inchiesta del 2012 di Bloomberg aveva scavato nei loro affari finanziari arrivando a tracciare il quadro delle enormi fortune ammassate da 103 persone, tutte imparentate con quelli che in Cina si chiamano gli “otto immortali”: Deng Xiaoping, Chen Yun, Li Xiannian, Peng Zhen, Yang Shangkun, Bo Yibo, Wang Zhen e Song Renqiong.
Sono questi coloro che più attivamente collaborarono con Mao Zedong alla fondazione della Repubblica. Furono poi allontanati dai centri nevralgici del potere durante la Rivoluzione culturale e ritornarono a ricostruire l’economia cinese nel 1976, alla morte di Mao. Sono loro che sono riusciti a far crescere gli standard di vita della popolazione senza che il Partito comunista perdesse il potere.
Sono loro e i loro successori che in trent’anni hanno portato 600 milioni di persone fuori dalla soglia di povertà, sono loro che hanno contribuito alla formazione della classe media a cui oggi anelano tutte le grandi multinazionali e sempre loro che hanno fatto crescere l’economia cinese fino a trasformare il loro paese nella seconda potenza economica del mondo. Oggi la popolazione cinese guadagna in media sei volte tanto quello che guadagnava nel 1976, e cento milioni di persone sono passate dal possesso di una bicicletta a quello di una macchina.
Nel 1949, il Partito comunista cinese era appena uscito vittorioso da un’estenuante guerra civile. Sacrificò i proprietari terrieri, trasformò le fattorie in comuni agricole e pretese che le fabbriche fossero proprietà dello Stato. All’inizio degli anni Ottanta, la classe dirigente guidata dagli Otto immortali affittò la terra ai contadini e permise lo sviluppo di aziende private.
Alla fine del decennio riuscì a sopravvivere all’ondata di rabbia popolare culminata nelle manifestazione di piazza Tian’anmen del 1989. Il grilletto scatenante era lo iato tra l’ideologia comunista ancora in voga e l’imperare della corruzione e di una distribuzione ineguale delle ricchezze. È in quegli anni che i figli e i parenti di chi sedeva sulle poltrone del potere cominciarono a sfruttare le loro guanxi. E si arricchirono a dismisura. Nasceva così il nuovo ceto dei “principini”.
Durante gli anni Ottanta furono scelti per dirigere i nuovi conglomerati di Stato, negli anni Novanta con le ricchezze accumulate si buttarono nei settori allora in esplosione dell’economia: immobiliare, acciaio e carbone. Oggi sono i loro figli, persone tra i trenta e i quarant’anni, a gestire i private equity e l’integrazione della Cina nell’economia globale.
L’inchiesta di Bloomberg individua 26 di loro in posizioni di comando nelle aziende di Stato che dominano l’economia cinese. Nel 2011 l’ammontare di asset gestito da soli tre di loro (Wang Jun, figlio del generale Wang Zhen; He Ping, nipote di Deng Xiaoping e Chen Yuan, figlio dell’economista di fiducia di Mao Chen Yun) equivaleva a più di un quinto del Pil cinese. Secondo lo stesso report, sono 43 quelli che – tra i 103 parenti degli otto immortali – sono diventati dirigenti di importanti aziende private.
È la terza generazione dell’aristocrazia rossa, quindi i nipoti degli otto immortali, che sfruttando il privilegio di aver ricevuto un’educazione all’estero e i contatti del loro background famigliare si sono buttati nel settore privato. Alcuni di loro sono stati addirittura assunti dalle banche di Wall Street, probabilmente con l’intenzione di sfruttare le loro guanxi per aumentare il giro d’affari in Cina.
Esemplare in questo senso è la vicenda recentemente portata alle cronache dal New York Times. Un’azienda cinese con soli due dipendenti pagata da Jp Morgan 75mila dollari al mese. L’azienda, altresì sconosciuta, era diretta dalla 32enne Lily Chang, la figlia unica dell’ex premier cinese Wen Jiabao. E il nuovo presidente cinese è anch’esso un principino, figlio di un’eroe della rivoluzione che ha ricoperto la carica di vicepremier tra il 1988 e il 1993. E principini sono altri tre membri del nuovo comitato permanente del politburo, il gotha a sette seggi del Pcc.
Ripercorrendo i sessant’anni di storia della Repubblica popolare viene quindi più facile comprendere i leaks che riguardano la Cina. Le élite cinesi – ora non c’è più dubbio – portano i loro capitali offshore. E tra questi ci sono anche il cognato del presidente Xi Jinping, i figli degli ex premier Wen Jiabao e Li Peng, il nipote dell’ex presidente Hu Jintao e il genero del “piccolo timoniere” Deng Xiaoping. E almeno 18 tra i parenti degli otto immortali, quelli che noi chiameremo i padri fondatori.
Rimane più difficile invece apprezzare gli sforzi propagandistici del presidente. I media di Stato ancora riportano una sua frase del 2004 in cui ammoniva gli alti quadri dello Zhejiang, regione che allora governava: “controllate le mogli, i figli, i parenti, gli amici e i collaboratori. E giurate di non usare il potere a scopi personali”. Quello che è certo, è che sarà difficile fare pulizia.
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