Nel 2015 si celebrano vent’anni dalla IV Conferenza delle donne di Pechino che si tenne dal 30 agosto al 16 settembre 1995 nella capitale cinese. Si trattò della quarta di una serie di conferenze mondiali sulle donne organizzate dalle Nazioni Unite, ed ha rappresentato la conclusione di un lungo processo preparatorio, internazionale e regionale.
A guardare le immagini di quei giorni, si percepisce ancora tutto l’entusiasmo che solo un evento di portata storica, come fu quello, può inspirare. Anche i numeri a sentirli suonano ancora oggi impressionanti: approdarono, infatti, nella capitale cinese 17,000 tra partecipanti ai lavori e rappresentanti di 189 governi. 430 furono i membri della stampa internazionale accorsi da ogni parte del globo. La Conferenza fu preceduta dal Forum delle Organizzazioni Non Governative, cui parteciparono 30,000 attivisti, un’iniziativa indipendente che il governo cinese pensò bene di relegare a Huairou, che allora si trovava a 45 minuti di autobus da Pechino.
Per molte delle partecipanti la strada per Pechino fu irta di ostacoli. Mesi di attesa per i visti, difficoltà nella raccolta fondi e l’atteggiamento ostile del governo cinese, che guardava con una certa preoccupazione a questo esercito al femminile sceso sulla Muraglia.
La Conferenza fu soprattutto l’occasione per affermare che “i diritti delle donne sono diritti umani” e per ufficializzare concetti come gender mainstreaming ed empowerment, già in uso del dibattito sul genere, ma che, in quel preciso momento, entrarono nel gergo della politica internazionale a indicare obiettivi urgenti da raggiungere e indicando come raggiungerli in ogni settore della vita, pubblica e privata.
L’evento si chiuse con l’adozione di due documenti: la “Dichiarazione di Pechino” e la “Piattaforma d’azione”, un vero e proprio spartiacque, cui generazioni di donne fanno ancor oggi riferimento. “Per quanto sia imperfetta, rappresenta il documento con il più grado alto di consenso sui temi dell’uguaglianza di genere, della giustizia e dell’empowerment mai prodotto dai rappresentanti dei governi globali!” dichiarò Bella Abzug, leader del movimento femminile statunitense.
In chiusura della conferenza, l’allora presidente Jiang Zemin dichiarò che “l’eguaglianza di genere sarebbe diventata una politica fondamentale del paese”. In realtà le donne cinesi arrivarono alla Conferenza con il loro bel fardello di iniquità e sofferenze.
L’agenda delle donne cinesi, presentava infatti aspetti unici, in virtù delle condizioni sociali economiche e politiche della Cina di quegli anni e dei decenni precedenti. La Cina del 1995 era un paese in crescita economica esponenziale ma che ancora scontava le conseguenze delle riforme che scandivano questo passaggio. La situazione era particolare perché, in seguito alle liberalizzazioni economiche, la condizione delle donne cinese era andata paradossalmente peggiorando.
Lo sintetizzano bene le parole della sinologa francese Marie-Claire Bergère “le donne (cinesi) videro sostituirsi ai capo squadra, il padre o il marito” giacché nelle campagne si assistette a un ritorno dell’autorità patriarcale che portò a una graduale perdita di quell’indipendenza, anche economica, che le donne si erano duramente guadagnate.
Lo scioglimento delle unità produttive, una delle prime conseguenze del nuovo corso economico, riportava infatti le donne al lavoro domestico, rigettandole nella subalternità e, da un punto di vista pratico, le privava di quella rete di assistenza e di mutuo soccorso che di fatto aveva loro permesso di rendersi più indipendenti.
L’introduzione della pianificazione demografica attraverso la legge del figlio unico, nel 1978, colpì poi milioni di donne con esiti noti a tutti e che sono confermati dai numeri impressionanti degli squilibri tra sessi ancora esistenti in Cina e in generale nel Sud East Asiatico. Le riforme che interessarono le industrie di Stato ebbero poi una forte dimensione di genere. Secondo i dati riferiti dall’antropologa Elisabeth Croll all’inizio degli anni Novanta. le donne costituivano il 70 per cento dei lavoratori “dismessi” dalle aziende cinesi di Stato.
La crescita parallela del settore privato, e l’arrivo degli investimenti esteri, dirottò molte donne, prive di rappresentanza, in settori dove prevalevano rapporti di lavoro informali e privi di controllo. I movimenti migratori che si misero in moto in quegli anni videro le giovani donne protagoniste, in partenza per mete lontane con la promessa di lavori incerti e con un futuro ancora tutto da costruire, costrette spesso ad affidare i propri figli ai nonni, che andranno a popolare l’esercito dei “bambini lasciati indietro”.
Oggi, a vent’anni dalla Conferenza Pechino, molte di queste questioni rimangono ancora dolorosamente aperte per le donne cinesi.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.