Guerra Fredda spaziale? Escluse dalle iniziative americane, l’anno scorso Pechino e Mosca hanno replicato annunciando il lancio congiunto di una Stazione di ricerca lunare internazionale entro il 2035: un progetto concorrenziale, dichiaratamente inclusivo e aperto a tutti. Specie a chi mal tollera le consorterie e gli aut aut statunitensi. E’ in questa fase di socializzazione extraterrestre che si innerva la nuovissima Joint Committee on Space Cooperation dei BRICS, la sigla che riunisce Cina, Russia, Brasile e Sudafrica.
Una “nuova guerra fredda”. Con l’invasione russa dell’Ucraina, il rischio di un ritorno a un mondo diviso in blocchi contrapposti non è più un’ipotesi così remota. Da una parte c’è l’ Occidente a guida americana, dall’altra la nuova strana coppia: Cina e Russia, un tempo acerrime rivali, oggi si spalleggiano nella ridefinizione di un ordine internazionale in grado di rappresentare più equamente i nuovi equilibri politici ed economici mondiali. Una missione che non per nulla vanta l’endorsement del Sud globale, sempre più inclinato verso l’orbita sino-russa.
La scelta del termine astronomico non è un artificio retorico. Così come il rinnovato “bipolarismo” si esplicita ormai puntualmente in sede Onu (pensiamo al diffuso astensionismo durante il voto contro la guerra), anche nei cieli l’asse Pechino-Mosca esercita un notevole potere attrattivo tra i paesi emergenti. Non a caso lo spazio viene considerato da molti la nuova frontiera della competizione tra vecchie e nuove potenze.
Quando si descrivono le relazioni tra Cina e Russia l’utilizzo del termine “alleanza” rischia di occultare i chiaroscuri di un rapporto da sempre ambiguo. Ma nello spazio l’amicizia tra i due giganti sembra davvero “senza limiti”. A nulla sono valse le sanzioni internazionali applicate fin dalla crisi di Crimea per prevenire il trasferimento di tecnologia strategica a Mosca.
Seguendo la tipica formula “win-win”, la cooperazione sino-russa massimizza i punti di forza di ciascun partner: il Cremlino, in difficoltà economiche, occhieggia i finanziamenti cinesi, mentre Pechino beneficia dell’esperienza dei russi per rafforzare il proprio programma spaziale, ancora molto giovane seppur in rapidissima espansione. Non solo. Per i due vecchi nemici è anche l’occasione per controbilanciare il crescente isolamento della comunità scientifica cinese e russa nell’emisfero occidentale.
Dal 2011 il Wolf Amendment vieta alla National Aeronautics and Space Administration (NASA) di utilizzare fondi governativi per impegnarsi in una cooperazione bilaterale diretta con la Cina senza l’autorizzazione del Federal Bureau of Investigation (FBI). La Russia, dal canto suo, paga il prezzo della guerra: dopo che l’Agenzia spaziale europea (ESA) ha disposto la sospensione della collaborazione con Roscosmos (la NASA moscovita) per l’invio di una sonda su Marte, il Cremlino ha annunciato il ritiro dalla Stazione spaziale internazionale (ISS) per protestare contro le sanzioni europee, statunitensi e canadesi.
Corsi e ricorsi storici. Inevitabilmente, il ricordo torna alla competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, tra le missioni Apollo e Sputnik. Come allora, anche oggi, la tecnologia spaziale rischia di diventare arena di un conflitto a distanza per le potenziali applicazioni militari. Come allora, anche oggi, la componente propagandistica continua a svolgere un compito importante. Se le analogie tra passato e presente sono molte, lo sono però anche le differenze. Tanto per cominciare, nella “nuova guerra fredda” aumentano i player coinvolti: dalla creatura di Elon Musk, SpaceX, alla cinese Galactic Energy, sono sempre di più le aziende private a rincorrere le opportunità commerciali di un settore in costante crescita. E in Cina, si sa, è il Partito/Stato che muove i fili del mercato.
Separare gli aspetti economici da quelli politici non è infatti cosa semplice. Per Pechino – che considera lo sconfinamento della NATO nell’Europa orientale la vera causa della guerra in Ucraina – la creazione in Occidente di coalizioni spaziali “esclusive” getta i prodromi per un’alleanza transatlantica spaziale. Sono soprattutto gli accordi di Artemide, annunciati dall’amministrazione Trump, a impensierire il gigante asiatico. Un partenariato non vincolante che stabilisce le direttrici per avviare operazioni estrattive sulla Luna. Disponendo la creazione di controverse “safety zones”, il trattato dà ai firmatari il monopolio su porzioni della superficie lunare, che le altre nazioni non possono varcare per motivi di sicurezza. A maggio erano 19 i paesi ad aver aderito ad Artemide; quattro – Romania, Colombia, Bahrain e Singapore – si sono aggiunti dopo l’invasione dell’Ucraina. Segno di come una Russia più aggressiva stia spingendo anche i più indecisi a compiere una scelta di campo.
Escluse dall’iniziativa, l’anno scorso Pechino e Mosca hanno replicato annunciando il lancio congiunto di una Stazione di ricerca lunare internazionale entro il 2035: un progetto concorrenziale, dichiaratamente inclusivo e aperto a tutti. Specie a chi mal tollera le consorterie e gli aut aut statunitensi. E’ in questa fase di socializzazione extraterrestre che si innerva la nuovissima Joint Committee on Space Cooperation dei BRICS, la sigla che riunisce Cina, Russia, Brasile e Sudafrica. Per i media cinesi, la commissione promuoverà “la cooperazione sulla costellazione di satelliti per il telerilevamento, la condivisione dei dati e l’osservazione congiunta”.
Se fino all’altro ieri la collaborazione sino-russa nello spazio era stata quasi unicamente circoscritta alla condivisione di conoscenze e competenze per la realizzazione concertata di tecnologia all’avanguardia dal possibile utilizzo militare, gli accordi di Artemide hanno dato ulteriore slancio alle sinergie bilaterali. Emarginate a Ovest, è nell’ex Terzo Mondo che Pechino e Mosca tornano a stringere nuovi sodalizi. Una parte del pianeta tutt’oggi sottovalutata dalle potenze occidentali, ma tanto numericamente consistente da riuscire a influenzare le decisioni dell’Onu.
Come spiegava tempo fa Malcom Davis, ex funzionario della Difesa australiana, la più grande preoccupazione dell’Occidente riguarda “chi stabilirà le regole [nello spazio], soprattutto per l’accesso alle risorse”. Sul futuro incombe il poco rassicurante precedente del Mar cinese meridionale, dove Pechino negli ultimi anni ha fortificato atolli disabitati per estendere il proprio controllo sulle risorse naturali sommerse. Se nelle acque contese sono gas e petrolio a creare zizzania tra Cina e vicini asiatici, la Luna fa gola per le sue vaste riserve di elio-3, un isotopo non radioattivo potenzialmente utile come alternativa all’uranio nelle centrali nucleari. Secondo Bloomberg, i ricercatori cinesi stanno già cercando la preziosa sostanza nelle rocce riportate sulla Terra nel 2020 al termine della storica missione sul lato oscuro della Luna.
Come nel Mar cinese, anche nello spazio – oltre alla corsa alle commodities – sono però soprattutto i possibili risvolti militari a creare tensione tra i vari governi. Negli ultimi anni accuse incrociate tra Pechino e Washington hanno direzionato i riflettori mediatici sulla natura “dual use” di satelliti e bracci meccanici.
Il dominio aerospaziale è oramai “chiaramente la frontiera sulla quale si sta già svolgendo e si svolgerà la competizione in ambito scientifico, economico e militare a livello globale”, concludeva a inizio luglio il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica italiana (Copasir) nella sua “Relazione sul dominio aerospaziale quale nuova frontiera della competizione geopolitica”. Il conflitto tra Russia e Ucraina “ha dimostrato in maniera evidente quanto ciò sia vero”, puntualizza il rapporto. Secondo il Copasir, “la competizione in prospettiva si svolgerà vedendo contrapposti i paesi occidentali attraverso i loro programmi di cooperazione e la Cina che, partita inizialmente in ritardo rispetto agli altri competitor internazionali, ha rapidamente colmato il divario anche attraverso il ricorso a pratiche spregiudicate ed aggressive per l’acquisizione di conoscenza e tecnologia dagli attori più avanzati nel settore”.
Con queste premesse può sembrare strano che la Roscosmos e la NASA abbiano raggiunto un’intesa per concedere agli astronauti russi un posto a bordo della ISS in cambio dell’accesso americano ai razzi di fattura sovietica Soyuz. La missione è partita proprio stamattina. Il fatto è che “la partita spaziale non segue sempre, pedissequamente, le logiche della conflittualità in terra”, ci spiega Giorgio Cella, esperto di politica internazionale dell’Europa centro orientale nonché autore di “Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi” (Carocci, 2021), “la contrapposizione globale in corso tra Russia e Stati uniti é un dominio di fondamentale portata sul piano della contrapposizione di potere. Ma, visto che è anche un ambito scientifico e storicamente finalizzato allo sviluppo globale, non sarebbe la prima volta in cui vediamo aprirsi qualche finestra del dialogo”. Lo attesta la nascita dell’ Outer Space Treaty, accordo approvato nel 1967 – in piena guerra fredda – da 111 nazioni per promuovere “l’esplorazione e l’uso dello spazio per scopi pacifici”.
“Che da quell’ambiente possa nascere l’inizio di un confronto serio e di appeasement globale è difficile ma non impossibile”, suggerisce Cella, “ma anche un elemento di dialogo e una mano tesa rappresentano senza dubbio un fattore di speranza”.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Esquire]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.