Non solo il prode Francesco Zappa. Cina Mundial si arricchisce del racconto della prima partita dell’Italia ai mondiali, vista a Pechino, da parte di Matteo Miavaldi. Buona lettura!
Il sentimento patriottico di un italiano, ne sono convinto dall’esperienza, è direttamente proporzionale ai chilometri che lo dividono dal divano di casa durante la prima partita dei mondiali. E qui a Pechino, con le 6 ore di fuso orario che ci dividono dal meridiano di Città del Capo, ma anche di Vigevano, lunedì scorso le vie di Sanlitun, il Testaccio pechinese, alle 2 di notte brulicavano di italiani stranamente ancora sobri.
Sobri e patriottici, due caratteristiche che raramente si manifestano all’unisono in un Paese dove il prezzo della birra è lievemente superiore a quello dell’acqua in bottiglia.
Circondata dall’atavica ostilità dei francesi, dalle gufate anglosassoni e dall’assenza di una rappresentanza paraguayana degna di questo nome, la comunità italiana si è riversata nei locali della Pechino da bere per assistere all’esordio degli azzurri – epiteto che non mi sarei mai sognato di utilizzare di mia spontanea volontà.
Accalcati sui tavoli umidi di pioggia e birra, sudando come beduini avvolti dalle maglie acriliche della nazionale acquistate di fretta nel pomeriggio al Mercato della Seta dopo estenuanti trattative, sfiancati da una settimana lavorativa interminabile, alle prime note dell’Inno di Mameli abbiamo urlato a squarciagola fratelli d’italia, seguiti dagli scimmiottamenti dei cinesi, che conoscono tutte le melodie di tutti gli inni nazionali ignorandone completamente le parole.
Vedere la partita della nazionale in Cina è un rito terapeutico, è una boccata di aria fresca dall’apnea cinese fatta di odori sgradevoli, incomprensioni culturali, violenti rigurgiti colonialisti e fragilità infantili mentre pensi che tutti i tuoi amici, in Italia, sono schierati davanti ad una fila di Peroni ed un televisore del Pigneto, in una serata come le altre, mentre tu che sei dall’altra parte del mondo ti porti, volente o nolente, il peso della responsabilità del tifo; tu che magari del calcio te ne sei sempre fregato, davanti alla pressione che ogni cinese ti mette addosso elencandoti lui la probabile formazione, aggiornandoti lui sugli ultimi acciacchi di Pirlo o sul modulo scelto da Lippi per l’esordio, ti senti in dovere di reagire, di far vedere ai cinesi – inteso il popolo, con accezione dispregiativa – che dei due l’italiano sei tu, e l’esclusiva del calcio ce la teniamo stretta, almeno quella.
E ci si ritrova, uomini e donne, uniti ad incitare 11 feticci nazionali proiettati sulla facciata di un palazzo: i ragazzi ad azzardare commenti tecnici, imprecare, far partire i “Popopopopopo”, tutta gente che di giorno veste i rispettabilissimi panni di borsisti alla Yuyan Daxue, consulenti di aziende vinicole europee, impiegati all’ambasciata e alla camera di commercio, traduttori e giornalisti, ma che la sera davanti alla nazionale si trasforma in mostri maleodoranti da curva; le ragazze ad annuire annoiate alle esternazioni dei compagni e a scivolare inesorabilmente nel gossip più becero, ultima barriera difensiva nell’attesa di vedere finalmente una partita di una squadra centrafricana.
Circondati da un habitat inspiegabilmente ostile, vuoi per l’antipatia e l’invidia che eredita una squadra campione del mondo, vuoi per il timore reverenziale che, ancora più insipegabilmente, ancora esercita la squadra italiana sulle tifoserie estere, tra tutte le esultanze al gol del Paraguay la più insopportabile e pericolosa arriva dal tavolo più vicino, presidiato da una compagine di russi abbondantemente ubriachi che, per 90 minuti, non hanno fatto altro che urlarci addosso ”Paraguay! Paraguay!”, senza la minima cognizione di causa o giustificazione calcistica: semplicemente per assecondare quell’istinto tipicamente sovietico di finire una serata con una scazzottata, per il puro gusto della visione del sangue, soddisfazione che al gol di De Rossi si sono visti sfumare davanti agli occhi.
Al fischio finale abbiamo rivisto la nostra vecchia Italia che soffre, inconcludente nel suo bel gioco, l’eroe romantico un po’ bruttino ma che alla fin fine strappa un sorriso a tutti, e mentre il sole delle 4 e mezza riempiva Pechino di quella nebbiolina malinconica e londinese, ci siamo riversati nei taxi diretti verso i nostri letti, sentendoci così tanto italiani quasi da vergognarsene.
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