Cina: migrazione a doppio senso

In by Gabriele Battaglia

Quest’anno per qualcuno le vacanze del Capodanno lunare sono cominciate prima del solito. Il crollo degli ordini e il rallentamento della produzione ha spinto molte fabbriche ad anticipare la chiusura, rispedendo a casa milioni di lavoratori migranti (mingong). Qualcosa di simile era già successo nel 2009, quando il colpo di coda della crisi globale sferzò anche la Cina. Poi era arrivato il salvifico pacchetto di stimoli da 4 trilioni di yuan (circa 400 miliardi di euro di allora), l’economia era ripartita e gli operai erano tornati alle loro linee di produzione concentrate lungo le coste urbanizzate. Uno scenario che difficilmente si ripeterà anche stavolta.
Il governo non ha alcuna intenzione di continuare ad alimentare le varie bolle (prima tra tutte quella immobiliare) legate alle politiche monetarie espansive degli scorsi anni. Né, d’altronde, disprezza l’idea di un’inversione del flusso migratorio orientandolo dalle province urbane della Cina orientale verso quelle centrali e occidentali, ancora largamente rurali. Il che permetterebbe di alleviare il sovraffollamento delle megalopoli e colmare gradualmente il divario tra zone ad alto e a basso reddito.

È un restyling a cui la dirigenza cinese lavora da un paio d’anni. Ovvero da quando nel 2013 Pechino ha dichiarato di voler arrivare al 60 per cento di popolazione urbanizzata entro il 2020 rispetto al 52,6 per cento del 2012, quando è avvenuto il primo sorpasso numerico dei «cittadini» in senso proprio: una svolta epocale per un paese tradizionalmente agricolo. Entro il 2011, le «cittadone» e i piccoli centri avevano attratto 690,7 milioni di persone, ovvero più del doppio della popolazione complessiva degli Stati Uniti.

L’operazione che si vuol mettere in atto ora segue criteri più selettivi e consiste nel direzionare i migranti verso le città medio-piccole. In una parola chengzhenhua, ovvero «urbanizzazione sostenibile» votata alla realizzazione di decine di nuovi centri di media grandezza, a misura d’uomo, sostenibili e tecnologici, con lo scopo di decomprimere le megalopoli affette da ipertrofia. Per invogliare i mingong a lasciare le «big cities» – di cui hanno trainato la crescita sobbarcandosi i lavori più sporchi, snobbati dalla borghesia cittadina – il governo ha riformato ad hoc i termini per l’assegnazione del hukou, il controverso sistema che lega welfare e servizi al luogo di residenza lasciando a mani vuote la popolazione mobile.

La riforma in cantiere – che copre comunque meno della metà dei 274 milioni di migranti interni presenti al di qua della Muraglia – prevede un allentamento delle restrizioni nelle megalopoli soltanto per una ristretta cerchia di individui («laureati, lavoratori qualificati e immigrati di ritorno»), mentre per i mingong rurali ci sono le città di seconda e terza fascia, quelle ancora in fase espansiva, in cui i servizi sono così così e i palazzoni – costruiti durante il boom edilizio post stimoli – sono ancora in attesa di essere riempiti.

All’inizio dell’anno la municipalità di Shanghai, la città che, assieme alla metropoli di Chongqing, si contende il primato di città cinese più popolosa, ha annunciato di voler bloccare il numero dei residenti a quota 25 milioni. Ufficialmente per assicurare «una migliore pianificazione urbana, una ragionevole distribuzione delle risorse pubbliche e una gestione efficiente della vita sociale». In realtà, tuttavia, il trend sembra aver già registrato una brusca frenata senza bisogno di alcun tappo.

Secondo dati rilasciati a gennaio dal National Bureau of Statistics, nel 2015 la popolazione «fluttuante» è scesa di 5,68 milioni di unità nel 2015, primo calo in trent’anni. Un’inversione attribuibile da una parte al crollo del settore manifatturiero labor-intensive nelle regioni «ex fabbrica del mondo» costiere e urbane – con progressiva delocalizzazione degli impianti verso le più economiche province interne – dall’altra al crescente sviluppo dell’economia rurale. Ora che il progresso si sta estendendo vicino casa, i mingong non hanno più ragione di percorrere centinaia di chilometri per trovare un impiego soddisfacente. Con il risultato che ormai oltre la metà risulta stabile nella provincia di appartenenza, rivelano stime governative.

In totale sono già 2 milioni i migranti ad aver lasciato le grandi città per cercare opportunità di lavoro nelle cittadine d’origine. Soltanto nella provincia del Sichuan – che costituisce il principale «vivaio» di mingong – nell’ultimo anno oltre 400mila lavoratori di ritorno si sono lanciati in iniziative imprenditoriali, agevolati da alcuni provvedimenti governativi: programmi di microcredito per rilanciare l’economia rurale; espansione della rete internet sino ad abbracciare gli anfratti più remoti delle regioni occidentali del paese; nuova spinta sulle infrastrutture, che secondo Pechino rappresentano il vero barometro per testare la qualità della vita a livello locale. Fatto sta che, stando alle previsioni ufficiali, quest’anno il reddito rurale pro capite dovrebbe scavalcare per la prima volta i 10mila yuan, confermando per il quinto anno di seguito un tasso di crescita superiore a quello delle aree cittadine. Tutti fattori che concorrono a polverizzare il vecchio stereotipo delle megalopoli come trampolino per fare carriera.

Stando a quanto evidenzia un’inchiesta della rivista Nanfeng Chuang (bisettimanale di ispirazione riformista e liberale, che si distingue per i suoi reportage, ndr), i giovani sono sempre più disillusi verso la possibilità di rimanere in pianta stabile nei grandi centri. Un maturato pragmatismo li distingue dalla vecchia «tribù delle formiche» che fino a qualche tempo fa ambiva ad amalgamarsi alla popolazione di Pechino, Shanghai o Guangzhou. Per «formiche» intendiamo i laureati fra i 22 ed i 30 anni, dotati di un alto grado di istruzione e di un reddito mediocre, che risiedono in comunità nelle periferie delle grandi metropoli cinesi. Un fenomeno balzato agli onori della cronaca intorno al 2009, quando il gigante asiatico era ancora nel pieno della sua espansione edilizia sulla scia dei Giochi Olimpici ospitati dalla capitale cinese l’anno precedente. A distanza di oltre un lustro, i giovani cominciano a preferire l’ipotesi di un rientro a casa. Un fenomeno che in cinese prende il nome di huixiangchao («corrente di ritorno al villaggio») e che ha motivazioni di ordine economico più che affettivo.

Come evidenzia l’indagine del Nanfeng Chuang – che copre 22 contee lungo la linea Aihui – Tengchong tra la regione dello Heilojiang, nel Nord Est della Cina, e quella dello Yunnan, nel Sud Ovest del paese – nonostante il livello economico e il salario medio nelle varie contee sia molto differente, ovunque i giovani migranti percepiscono uno stipendio più alto della media locale una volta tornati nel luogo d’origine. Questo proprio perché tornano temprati dalle megalopoli, con più esperienza e skills da mettere al servizio della comunità di nascita.

«Le grandi città sono come delle pompe per l’acqua: “risucchiano” la manovalanza in arrivo da villaggi e nuclei urbani di piccole dimensioni, per poi “sputare fuori” le giovani élite delle zone rurali. Grazie al flusso di ritorno di questi ragazzi istruiti, le città di seconda e terza fascia avranno maggiori opportunità di sviluppo», conclude l’inchiesta.

Tian Wangfu è originario di Huaihua, città-prefettura dello Hunan, di 340mila anime. Nel 2010 si è laureato in Arte e Design ambientale alla Beijing Forestry University, dopodiché ha trovato lavoro in una società di progettazione vicino a Guomao, il quartiere del business di Pechino. Aveva soltanto un giorno di riposo alla settimana: la domenica. Per comodità aveva affittato un appartamento vicino a Dawang Lu. Ogni giorno impiegava mezz’ora di bici per andare e per tornare. Spartiva con sette persone un appartamento formato da tre camere da letto, un salone, una cucina e un bagno. Tian si era aggiudicato la cucina per 950 yuan al mese; ma la cucina non si poteva chiudere a chiave ed era impossibile trovare un po’ di privacy. Soltanto il pensiero del suo lauto stipendio lo aiutava a stringere i denti. Aveva anche cominciato a valutare l’idea di mettere su famiglia con la sua ragazza, ma il costo delle case lo terrorizzava: «I prezzi di Pechino erano talmente alti che non potevamo nemmeno permetterci di prenderli in considerazione. A Pechino non si può più stare», ha raccontato al Nanfeng Chuang.

Nel luglio 2013, Tian ha deciso di ritornare a Huaihua, dove ha lavorato per sei mesi in una società di progettazione. Questo gli ha permesso di comprendere a fondo le esigenze del mercato locale. Poi lo scorso giugno ha inaugurato ufficialmente uno studio di design tutto suo. Al momento fattura 500mila yuan all’anno. Il suo obiettivo è quello di ampliare la propria attività per poter assumere quegli amici ancora sparsi per la Cina.

[Scritto per Missioni Consolata]