Dalla rete alle corti di giustizia. Il fenomeno di #METOO giunge a un inatteso punto di svolta in Cina, paese in cui gli abusi sessuali vengono ancora considerati tabù e le denunce socialmente disdicevoli. La scorsa settimana il tribunale distrettuale di Haidian, nella Pechino Ovest, ha informato una 25enne nota solo con il nickname Xianzi che dovrà rispondere delle accuse di “danneggiamento della reputazione e del benessere mentale” sollevate dal suo stesso assalitore.
Tutto è cominciato lo scorso luglio, quando incoraggiata dalla testimonianza di molte sue coetanea la ragazza ha deciso di pubblicare su Internet la propria esperienza di vittima. La storia risale a quattro anni fa quando, al tempo in cui la giovane frequentava gli studi dell’emittente di stato CCTV come tirocinante, il noto conduttore televisivo, Zhu Jun, le avrebbe messo le mani addosso nel tentativo di baciarla mentre si trovavano nel suo camerino. A nulla sono servite le richieste d’aiuto indirizzate alla polizia locale. Lo status sociale del suo aggressore rendeva sconveniente qualsiasi denuncia formale, spiegarono all’epoca le autorità. Le pressioni e le minacce esercitate contro la sua famiglia hanno costretto la giovane a un protratto silenzio.
“Molte persone chiedono alle vittime di #METOO perché non abbiano fatto immediatamente rapporto alla polizia. Io sono una di quelle che quattro anni fa lo ha fatto ma non ha ricevuto alcuna giustizia,” spiega Xianzi in una recente intervista alla BBC.
Il racconto della ventenne, diffuso inizialmente all’interno di un gruppo ristretto di amici su WeChat, la scorsa estate ha raggiunto portata virale sul Twitter cinese Weibo grazie alla condivisione dell’amica Xu Chao. Entrambe le ragazze sono state citate in giudizio dall’uomo che – bollate le accuse come “pura finzione” – ha chiesto scuse pubbliche online e sulla stampa, oltre al versamento di 655.000 yuan (95.254 dollari) e al pagamento di tutte le spese legali. Stando agli atti depositati il 18 settembre, le due sarebbero colpevoli di aver “danneggiato la reputazione e il benessere mentale” della star del piccolo schermo, celebre in tutto il paese per la conduzione del Gran Galà del Capodanno cinese. In risposta, martedì scorso Xianzi ha presentato una controquerela per “violazione dei diritti della personalità”, un eufemismo spesso utilizzato oltre la Muraglia per indicare gli abusi sessuali. 50.000 yuan è quanto preteso dalla donna, disposta in caso di vittoria a devolvere tutto in supporto del movimento #METOO. “Ho capito che bisogna usare i canali legali per dimostrare ciò che si sostiene”, ha spiegato la ragazza alla Reuters.
A oggi in Cina non esiste una legge specifica sulle violenze sessuali, né una definizione chiara del reato. Stando a un rapporto pubblicato dalle Nazioni Unite nel 2013, circa la metà degli uomini cinesi ha usato violenza psicologica o fisica sulla propria compagna, di cui il 72 per cento rimasto immune a qualsiasi conseguenza legale. Poche sono le vittime inclini a sporgere denuncia, anche solo per paura di divenire oggetto di discriminazioni. Le cose potrebbero cambiare nel giro di un paio d’anni. Lo scorso 27 agosto, il parlamento locale ha annunciato di avere al vaglio nuove disposizioni del codice civile che – se approvate – permetteranno di trascinare in tribunale chi “usa parole, azioni o sfrutta una relazione subordinata per molestare sessualmente.”
E’ il potere della rete. Nonostante la rigidissima censura con cui Pechino setaccia il web, il movimento contro gli abusi – in cinese #woyeshi – ha raggiunto una popolarità inaspettata per un paese ossessionato dalla stabilità sociale. Sulla scia delle proteste femminili negli Stati Uniti, nei primi mesi dell’anno #METOO è arrivato a coinvolgere più di 8000 studenti iscritti a 70 atenei cinesi differenti. 70 petizioni sono circolate sui social soltanto tra gennaio e febbraio, alcune con il sostegno di decine di docenti.
Proprio come in Occidente, negli ultimi tempi le accuse hanno colpito trasversalmente personaggi di spicco, dal presidente dell’Associazione buddhista nazionale, l’abate Xuecheng, a Richard Liu, CEO del colosso dell’e-Commerce JD, fermato dalla polizia del Minnesota in seguito a una segnalazione per molestie sessuali. Ora il coinvolgimento dei tribunali segna un’evoluzione incoraggiante, soprattutto alla luce della riforma giudiziaria avviata dal governo Xi Jinping nel 2014 con l’obiettivo di assicurare una maggiore trasparenza del sistema, da sempre soggetto a interferenze esterne e strettamente controllato dal Partito comunista.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.