Per compiere la sua transizione e scongiurare il rischio di eccessivi rallentamenti dell’economia, la Cina deve mettere mano ai grandi conglomerati pubblici. A che punto siamo? Mentre Pechino pubblica le linee guida della riforma, vediamo la situazione dei tre colossi energetici. Pare che alla fine il tanto temuto tracollo non ci sia stato. Tra agosto e settembre, l’attività industriale cinese avrebbe tenuto o sarebbe comunque calata di poco, il che lascia un certo margine di ottimismo agli analisti e anche ai mercati, che il primo ottobre hanno infatti reagito bene in tutta l’Asia (mentre le borse cinesi sono chiuse fino al 7 per via della festa nazionale).
Sono questi i dati che si traggono da due indagini parallele, quella del governo cinese e quella della autorevole rivista economica Caixin, i cui risultati sono stati resi noti proprio nel giorno che celebra la nascita della Repubblica Popolare. La prima analizza soprattutto le grandi manifatture, mentre la seconda si occupa delle piccole-medie imprese, quelle più colpite dal rallentamento dell’economia e dal calo degli ordini dall’estero. Ebbene, in questo secondo caso l’indice si è stabilizzato sui 47,2 punti mentre gli analisti si aspettavano un calo fino al 47.
È destinato così a trascinarsi il dibattito tra i teorici del cosiddetto “hard landing” – che prevedono un “atterraggio di schianto” dell’economia cinese, che significherebbe crisi – e invece chi vede nei dati l’effetto della transizione messa in atto dal governo di Pechino, che dovrebbe trasformare l’economia manifatturiera e votata all’export in un sistema più evoluto, trainato da consumi e servizi ad alto valore aggiunto. Prossimo appuntamento, il 19 ottobre, quando sarà lo stesso governo cinese a rilasciare i dati sulla crescita del Pil nel terzo trimestre 2015 che, secondo qualcuno potrebbe essere inferiore al 7 per cento, cioè la più bassa dall’inizio della crisi finanziaria globale di sei anni fa.
Nel frattempo, come si diceva, prosegue il dibattito e i teorici della “transizione” si basano soprattutto sulla volontà riformista del governo cinese, che vuole far entrare più privato nel settore pubblico.
Ecco, appunto, che fine ha fatto la riforma delle grandi imprese di Stato (Soe)?
In Cina, esistono più di 155.000 aziende di Stato, che impiegano decine di milioni di persone in tutti i settori, dalle banche agli alberghi, passando per compagnie aeree e raffinerie. Ma se la maggior parte è gestita dai governi locali, vi è uno zoccolo duro di oltre 100 grandi gruppi strategici a livello nazionale controllati da Pechino, tra cui Industrial and Commercial Bank of China, la più grande banca del mondo, e China Mobile, il più grande operatore telefonico del pianeta per numero di abbonati.
Per alcuni sono l’avanguardia della Cina nel mondo, per altri sono un baraccone inefficiente e fonte di corruzione. Se si riuscirà a riformarle – si dice – nuova benzina sarà pompata nel motore della crescita, ultimamente un po’ a secco.
Come di consueto, i processi destinati a cambiare il volto del Paese avvengono sottotraccia, per fenomeni carsici, fanno due passi avanti e uno indietro, talvolta uno avanti e due indietro. È il metodo sperimentale tanto caro a tutte le leadership che si sono succedute fin dai tempi di Mao, con un’aggiunta di cautela particolare se c’è il rischio di destabilizzare l’ordine sociale.
Bisogna quindi leggere tra le righe e seguire le ultime dal fronte.
Il 13 settembre scorso sono arrivate le linee guida della tanto attesa (dal 2013) riforma, comunicate al mondo nei loro principi fondamentali da Xinhua. Le Soe – proclama il Consiglio di Stato (governo) – devono diventare più efficienti, ridurre le perdite ed integrarsi meglio nel mercato. Ci saranno rimpasti nei consigli di amministrazione ed entro il 2020 saranno riclassificate a seconda che svolgano una funzione “sociale” o di business. Le autorità cinesi promettono poi di “introdurre attivamente altri investitori” (privati) e di spingere il management a collocare azioni sul mercato, anche se la maggior parte degli analisti ritiene che le privatizzazioni vere e proprie saranno comunque limitate.
Fin qui tutto bene, ecco le buone intenzioni. Ma un recente articolo di Caixin mette in risalto quali siano i principali problemi che sta incontrando la riforma nello specifico del settore energetico, quello in cui si annida (o si annidava) quel network di interessi costituiti che ruotava attorno a Zhou Yongkang, l’ex “tigre” finita in gabbia.
Alcuni insider hanno riferito alla rivista che un piano dettagliato per il settore del petrolio e del gas è stato approvato e verrà rilasciato entro la fine dell’anno.
Fin dal 2012, i giganti petroliferi del Paese – China National Petroleum Corp. (CNPC), China Petrochemical Corp. (Sinopec) and China National Offshore Oil Corp. (CNOOC) – hanno cominciato a elaborare piani separati per attrarre investitori privati e consolidare il business. Tuttavia – si dice – il processo ha poi rallentato sia a causa di un rimpasto nel management di tutte e tre le imprese, sia nell’attesa che il governo varasse le linee guida.
La maggior parte degli addetti ai lavori si aspetta che la riforma del settore petrolifero preveda quanto segue: totale liberalizzazione nei diritti di estrazione, nelle importazioni di greggio e nella gestione dei gas/oleodotti; alleggerimento del controllo statale sui prezzi di vendita dei prodotti raffinati e sui prezzi di petrolio e gas.
Per conseguire questo scopo, svolgerà una funzione fondamentale lo scorporo delle attività operative delle “Big Three”, ma non ci sarebbe per ora consenso sul “come”.
Secondo Caixin, si sta al momento discutendo soprattutto di gas/oleodotti. Chi dovrà gestirli? L’opzione più accreditata consisterebbe nel consolidamento iniziale delle attività delle tre imprese, per creare poi una società unica di gestione del network a livello nazionale. Questo renderebbe più efficiente la distribuzione e consentirebbe di risparmiare sui costi.
Ma alcuni ricercatori della commissione per lo Sviluppo e le Riforme hanno suggerito un approccio più moderato: prima, lo scorporo tra attività estrattive e distributive; poi, ulteriore separazione tra gestione dei "tubi" e vendite, in modo che si resti alla fine con una società che gestisce solo il network, aperta a ogni categoria di investitori.
Sotto i riflettori ci sono anche tutte quelle imprese che forniscono servizi nei giacimenti. A differenza di CNOOC, che ha già scorporato queste attività dal suo core business, creando diverse imprese indipendenti e quotate in borsa, CNPC e Sinopec se le tengono ancora all’interno: hanno propri team di ingegneri che costruiscono gli impianti e si occupano della parte tecnologica, il che penalizza eventuali concorrenti che volessero usufruire di servizi simili. Non solo, il legame – si dice – rende poco chiara la gestione finanziaria di queste attività collaterali.
Tutti i dettagli della ristrutturazione vanno maneggiati con particolare cura a causa di due fattori: primo, il generale calo dei prezzi del petrolio a livello globale rischia di affossare gli operatori che fanno le scelte sbagliate; secondo, la questione occupazione, che per Pechino è soprattutto politica. Le attività estrattive nei giacimenti sono ad alta intensità di lavoro: nei pozzi di CNPC lavorano 220mila persone; in quelli di Sinopec, 130mila. Sarebbe meglio non far pagare a loro i costi della ristrutturazione.