Una botta di marxismo per impedire che il funzionario “sia disorientato e si perda” è la ricetta della autorità cinesi contro il virus dell’ideologia occidentale e, soprattutto, contro la corruzione. Pechino ha annunciato domenica un intenso programma di educazione ideologica destinata ai funzionari per rafforzare la loro fede nel comunismo.
Il dipartimento Organizzazione del Partito comunica che i profondi cambiamenti socio-economici avvenuti in patria e all’estero hanno apportato sempre più “distrazioni” per i pubblici ufficiali, che scontano “perdita di fede e declino morale”. Secondo il comunicato, “la convinzione e la morale dei funzionari possono determinare l’ascesa o la caduta del Partito e del Paese”. Gli uomini che guidano la Cina devono quindi mantenere le proprie convinzioni marxiste “per evitare di perdersi nella richiesta di democrazia occidentale, valori universali e società civile”.
Alla voce “declino morale” vengono dunque assimilati sia la corruzione sia il cedimento alle ideologie provenienti dall’Occidente. Un colpo al cerchio e uno alla botte. Tuttavia, il Global Times, quotidiano di solito noto per le posizioni nazionaliste, intervista un anonimo professore di scienze politiche d’accordo sul fatto che la Cina dovrebbe stabilire “un proprio sistema di valori fondamentali”, ma anche determinato nel sostenere che “il problema attuale non è il risultato della penetrazione dell’ideologia occidentale. La politica di riforma e apertura deve essere applicata non solo alla costruzione materiale della nostra società, ma anche alla vita spirituale e culturale”.
Criptico, ma non troppo. Il professore prudentemente anonimo sta dicendo che se è vero che la Cina si è aperta totalmente al mondo in quanto ad affari e consumi, sul piano culturale ed ideologico stenta ancora a fare lo stesso. E probabilmente, è proprio il cortocircuito creato da un capitalismo di Stato senza gli anticorpi della libera discussione a generare corruzione, protervia, ingiustizia. Detto altrimenti: è un problema nostro, lasciamo stare i “valori occidentali” per cortesia.
Diverse componenti del mondo intellettuale cinese ritengono da tempo che, pur nel contesto dato dal sistema politico in vigore, una maggiore apertura alla discussione fornirebbe alla Cina gli strumenti per affrontare i problemi sociali in modo più flessibile ed efficiente. Gli intellettuali critici si annidano nell’università e nei think-tank, proliferati negli ultimi anni anche grazie ai cospicui finanziamenti di un governo alla ricerca di più competenze e più pensiero per affrontare le sfide della globalizzazione.
Tuttavia, all’inizio di luglio, l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali (Cass), cioè il maggiore think tank del Paese, ha reso noto che ideologia e disciplina politica devono essere i principali criteri di valutazione sia dei funzionari sia dei ricercatori. La dichiarazione è giunta dopo che nei mesi precedenti l’Accademia aveva ricevuto diversi avvertimenti da parte della Commissione centrale per l’Ispezione Disciplinare, l’agenzia anticorruzione del Partito, che aveva lasciato filtrare accuse secondo cui il think-tank sarebbe “troppo esposto” a influenze occidentali.
Il caso della Cass rivela che in Cina è probabilmente in corso un processo di “rettifica ideologica” delle tendenze intellettuali sorte nei think-tank: “Pensate, sì, ma solo ciò che è utile alla stabilità politica”. James McGann, direttore dell’istituto interno all’università della Pennsylvania che ogni anno stila la classifica mondiale dei think-tank, ci ha spiegato una tendenza in atto: “Dopo le ‘riforme e aperture’ di Deng Xiaoping, molti studiosi sono passati dalle università ai think-tank sia per ragioni economiche sia per ragioni di libertà intellettuale.
Il fatto interessante è che per via del controllo e della sempre maggiore affiliazione alle politiche di governo, ultimamente si sta invertendo la migrazione. Per esempio molti intellettuali lasciano la Cass e entrano all’università proprio perché la Cass sta diventando overpoliticizzata”.
Non nuova è anche l’assimilazione di funzionari a intellettuali. Tacendo della tradizione imperiale cinese, in cui il poeta e lo scrittore coincidevano generalmente con il funzionario mandarino, risale al mese scorso la norma “no leak” sui media, che impedisce ai giornalisti di diffondere informazioni e indiscrezioni raccolte durante il proprio lavoro prima che siano pubblicate (e quindi filtrate).
Secondo Song Jianwu, un giurista esperto d’informazione, dato che i media nazionali sono proprietà dello Stato, la nuova norma si giustifica con il fatto che “i giornalisti sono dunque simili ai dipendenti pubblici, e devono essere sottoposti a un regolamento simile a quello che si applica ai funzionari del governo”. Più che Marx, qui c’è tanto Confucio.
Tornando alla circolare delle autorità, vi si richiede che la scuole di partito locali e le accademie di formazione politica rafforzino l’educazione in “cultura tradizionale cinese”, invitando i funzionari a “difendere l’indipendenza spirituale della nazione” e astenendosi così dal diventare “yes-man dei valori morali occidentali”. Per ottenere lo scopo, il documento chiede l’istituzione di “un meccanismo di formazione a lungo termine”.
[Scritto per Lettera43; fotocredits: cnn.com]