Fermi tutti. La Cina non conoscerà il “Big Crash”. Ad oggi la borsa cinese è semplicemente tornata ai livelli di marzo scorso, + 80 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014. Inoltre la finanza gioca ancora un ruolo marginale rispetto all’economia reale della Repubblica popolare. Per ora gli unici a perderci, sono stati i 90 milioni di piccoli azionisti.
Fermi tutti. La Cina non conoscerà il “Big Crash”. La CSRC, la commissione che ha il compito di regolamentare i mercati, ha rilasciato un comunicato stampa in cui scrive che il mercato finanziario “sta precipitando in maniera irrazionale”. Vieta quindi per sei mesi la vendita di azioni a chiunque possieda più del 5 per cento di un titolo. È l’ennesima misura atta a tamponare il crollo delle borse cinesi: oltre 3mila miliardi di dollari in fumo in tre settimane. Ieri più di 1300 aziende (sulle 2800 complessive) hanno sospeso le contrattazioni con il tacito plauso del governo. Sempre ieri la People’s Bank of China ha assicurato che fornirà “ampia liquidità” al mercato. Nei giorni scorsi Pechino aveva già cercato di fermare la crisi bloccando le offerte pubbliche iniziali e l’acquisto di titoli a credito. Ma per ora l’intervento politico non è servito ad altro che ad aumentare il panico tra gli investitori.
Il mercato azionario cinese è secondo solo a quello degli Stati Uniti, ma ha caratteristiche particolari. Le borse di Shanghai e Shenzhen hanno 90 milioni di piccoli azionisti: più degli iscritti al Partito comunista cinese, più degli abitanti della Germania. Sono circa l’80 per cento di tutti gli investitori: persone normali che giocano con la finanza come fossero al casinò. Secondo la vulgata – che finora il governo ha avallato – è più facile fare i soldi giocando i borsa che coltivando i campi. Così, quando quest’anno l’indice di Shanghai è salito vertiginosamente fino a toccare rialzi del 150 per cento, i piccoli risparmiatori cinesi sono stati travolti da un’euforia contagiosa. Solo a maggio sono stati aperti 12 milioni di nuovi conto-titoli. Ma il 12 giugno il sistema che aveva portato a guadagni facili è cominciato a crollare. È esploso il panico, il governo ha reagito e i piccoli risparmiatori hanno cominciato a vendere: meglio avere contanti che azioni. I prezzi si sono abbassati fino a raggiungere il loro valore minimo. La paura ha travolto qualsiasi prodotto: dall’argento allo zucchero, dal rame alle uova, dal ferro ai germogli di soia.
Così ieri le borse cinesi hanno chiuso con un calo del 5,9 per cento. Nonostante l’acquisto di titoli e l’immissione di liquidità decisa dai vertici politici della Repubblica popolare, è il punto più basso toccato in queste ultime tre settimane drammatiche. Il panico ha contagiato le altre borse asiatiche. Tokyo ha chiuso a meno 3,1 per cento; Hong Kong ha perso più del 5,6 per cento e Taiwan ha segnato il suo record negativo (- 3 per cento). In perdita anche Seul e Sidney. Gli analisti hanno cominciato a paragonare il luglio del 2015 all’ottobre del 1929. E c’è anche chi ha già sottolineato come l’andamento macroeconomico degli Stati Uniti di allora sia molto simile a quello della Cina di oggi: lavoratori migranti che cercano fortuna come operai in città. Alle spalle un ventennio caratterizzato da una grande mobilità sociale, dalla crescita industriale e dell’aumento della domanda interna.
Ma c’è anche chi sostiene che l’impatto sarà contenuto. Comunque non peggiore di quello del biennio tra il 2007 e il 2008, quando l’indice di Shanghai perse due terzi del suo valore. Ad oggi la borsa cinese è semplicemente tornata ai livelli di marzo scorso, + 80 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014. Inoltre la finanza gioca ancora un ruolo marginale rispetto all’economia reale della Repubblica popolare. È solo un terzo del suo Pil, contro il cento per cento o più delle economie dei paesi sviluppati. Non si tratterebbe quindi di un rischio sistemico, ma di una semplice ondata di panico che il governo ha deciso di arginare con gli strumenti del suo socialismo con caratteristiche cinesi. D’altronde, come si legge sullo spin off in lingua inglese del Quotidiano del popolo, “la fiducia è tutto, ma su cos’è la fiducia bisogna intendersi. Non può essere solo il collettivo giudizio ottimistico degli investitori sui mercati. È anche la capacità di adattarsi alle perdite quando il mercato è in difficoltà”. Come dire: lasciate che alcuni si impoveriscano per primi.
[Scritto per Il Fatto Quotidiano; foto credit: qz.com]