Come rivelato a fine novembre dall’autorevole portale Ipvm, subito dopo le alluvioni dello Henan il governo provinciale ha avviato la costruzione di un avanzatissimo sistema di sorveglianza che ha come target principale giornalisti e studenti stranieri.
“#LaBBCdiffondeRumors”. E’ l’hashtag diventato virale su Weibo, il Twitter cinese, lo scorso luglio dopo un servizio dell’emittente britannica sulle perdite umane nelle alluvioni dello Henan, “le peggiori degli ultimi mille anni” di storia cinese. A cavalcare l’indignazione popolare troviamo i media statali -inclusa l’agenzia di stampa Xinhua- ma non solo. Persino l’ufficialissima Lega della gioventù comunista dello Henan si è unita al coro, chiedendo pubblicamente che i giornalisti stranieri impegnati nella copertura della catastrofe venissero pedinati, controllati, quindi spiati e segnalati alle autorità. I corrispondenti di Los Angeles Times, Deutsche Welle, Associated Press e Al-Jazeera hanno tutti subito varie forme di aggressioni verbali per aver riportato la malagestione della crisi con toni ritenuti anticinesi.
È piuttosto raro che simili esortazioni xenofobe assumano una veste tanto formale. A distanza di mesi quello che allora sembrava un episodio isolato acquisisce le caratteristiche di una campagna concertata dall’alto. Come rivelato a fine novembre dall’autorevole portale Ipvm, subito dopo la tragedia dello Henan il governo provinciale ha avviato la costruzione di un avanzatissimo sistema di sorveglianza che ha come target principale giornalisti e studenti stranieri. Lo si evince da un appalto pubblico del 29 luglio, che fa riferimento all’installazione di 3.000 telecamere per il riconoscimento facciale collegate a banche dati nazionali e regionali. Scopo: profilare in maniera dettagliata persone di interesse con una precisione tale da individuarne l’identità anche con il volto parzialmente coperto da mascherine e occhiali. Il riconoscimento deve poter avvenire semplicemente caricando un’immagine o cercando le caratteristiche facciali nel database.
Il sistema del costo di 5 milioni di yuan (circa 782.000 di dollari), coinvolge almeno 2.000 persone tra funzionari e poliziotti, e prevede una suddivisione dei giornalisti in tre categorie di rischio: rossi (”di interesse chiave”), gialli (“di interesse generale”), verdi (ritenuti “non dannosi”). Quando un giornalista contrassegnato come “rosso” o “giallo” prenota un biglietto per la provincia, le autorità ricevono un segnale d’allarme. Qualcosa di analogo è previsto per gli studenti stranieri, a loro volta classificati in tre gruppi: “studenti stranieri eccellenti”, “personale generale”, “persone chiave e personale instabile”. La ripartizione avviene in base alla frequenza a lezione, ai risultati degli esami, al paese di provenienza e alla condotta”. Le scuole stesse sono chiamate a segnalare alle autorità gli studenti pericolosi per la sicurezza. Durante periodi politicamente sensibili, come il meeting annuale dell’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese, viene attivato “un meccanismo di allarme in tempo di guerra” per intensificare il monitoraggio degli studenti “rossi”, anche attraverso cellulari e social media. La realizzazione del progetto – assegnato il 17 settembre alla società tecnologica cinese NeuSoft – doveva essere completata entro due mesi dalla firma del contratto. Non è chiaro se il sistema sia attualmente operativo.
La Cina viene considerato il paese più avanzato nella sorveglianza di massa. Nel 2019, secondo i media di Stato, oltre la Muraglia, si contavano circa 200 milioni di telecamere CCTV dotate di riconoscimento facciale in grado di identificare una persona in pochi secondi. Cifre che si stima abbiano ormai superato i 560 milioni nell’ambito del progetto “Skynet”, lanciato all’inizio del nuovo millennio “per combattere il crimine e prevenire possibili disastri”. Dieci anni dopo, le aspirazioni securitarie del governo cinese sono sfociate in un programma ancora più massiccio noto con il nome di “Sharp Eyes”, allusione al sistema di spionaggio popolare lanciato in epoca maoista per incentivare il controllo reciproco tra i cittadini. Come ricorda Global Voices, “Sharp Eyes, si presenta come versione rurale del famigerato progetto cinese di sorveglianza Skynet da cui si distingue per la partecipazione degli abitanti dei villaggi alla sorveglianza interpersonale al fine di ridurre i costi della sicurezza pubblica.”
Per IPVM, è la prima volta che la sorveglianza di massa – particolarmente occhiuta nei confronti delle minoranze islamiche – colpisce nello specifico i reporter stranieri. Dal 2014 l’introduzione di nuove misure antispionaggio ha reso la comunità degli expat bersaglio prediletto del ministero della Sicurezza dello Stato, la “CIA cinese”. L’epidemia di Covid ha acuito la diffidenza della popolazione verso gli stranieri, ritenuti potenziali untori. Non hanno giovato le accuse incrociate con gli Stati uniti sull’origine del virus, cavalcate dalla propaganda statale. Alla tesi della fuga dal laboratorio di Wuhan, Pechino ha risposto incolpando gli americani arrivati nell’autunno 2019 nel capoluogo dello Hubei per la VII edizione dei Giochi mondiali militari.
Oltre la Grande Muraglia la definizione di spionaggio ha confini piuttosto estesi. Ad aprile, giustificando controlli più ferrei sulle infiltrazioni esterne, il Global Times ha riportato il caso di uno studente di giornalismo impiegato in un “media occidentale mainstream” accusato di aver collaborato con “20 gruppi stranieri ostili e oltre una dozzina di funzionari di un paese occidentale per raccogliere informazioni e stigmatizzare la Cina”.
Secondo quanto rivelato recentemente dal Washington Post, documenti pubblici mostrano come media statali, dipartimenti di propaganda, polizia, esercito ed enti regolatori del web stiano acquistando nuovi e più sofisticati sistemi per controllare la narrazione sulla Cina all’estero. Spicca la creazione di un software per i media governtivi cinesi da 320.000 dollari in grado di creare un database di giornalisti e accademici stranieri attingendo informazioni da Twitter e Facebook.
Secondo l’ultimo rapporto di Reporter Senza Frontiere (RSF), oltre la Grande Muraglia, 127 giornalisti si trovano attualmente in custodia, mentre 18 corrispondenti stranieri sono stati costretti a lasciare il paese nel 2020; tre (Gui Minhai, Yang Hengjun e Cheng Lei) fronteggiano l’accusa di spionaggio. Il giudizio complessivo è il seguente: “Da quando il presidente Xi Jinping è salito al potere all’inizio del 2013, l’ondata di arresti peggiore dalla fine dell’era maoista ha colpito giornalisti e commentatori politici in tutto il paese, ponendo fine bruscamente a un decennio di sperimentazione pluralista e di dibattito nei media cinesi”.
Di Alessandra Colarizi
[pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.