Cina – La diplomazia delle sigarette

In by Simone

Dal 1 giugno a Pechino è vietato fumare nei locali pubblici e al chiuso. Ma solo a Pechino ci sarebbero almeno 4,9 milioni di fumatori che si fumerebbero almeno 15 sigarette al giorno. A Mao piaceva essere ritratto con una sigaretta in mano, ma Xi Jinping non fuma. Fino ad oggi offrire una sigaretta era un gesto di amicizia impossibile da rifiutare. Cosa succederà adesso?
In Cina già un paio d’anni fa ci avevano provato. Appena entrato nel negozietto sotto casa che vendeva jiaozi e ravioli al vapore, oltre a buonissimi spaghetti xinjianesi, il proprietario mi aveva fatto notare il cartello appeso sopra il menu: «Vietato fumare». Avevo giusto la sigaretta in mano, poco dopo essermi seduto. Gli avevo chiesto: «Ma davvero?». E lui sorridendo mi aveva allungato il posacenere.

Gli ho offerto una delle mie sigarette (Hongtashan, prodotte in Yunnan, ma distribuite su tutto il territorio nazionale; baide ruande, bianche, morbide, quelle che scherzando si dice siano le «preferite dai camionisti cinesi») e sfumacchiando avevo scherzato sul divieto. «Impossibile che si possa mai realizzare», perché i cinesi, per quanto possa apparire strano in Occidente, sono refrattari ai divieti, alle regole.

Avevamo dunque concluso che non avrebbe mai e poi mai funzionato, concludendo così la nostra chiacchierata, soddisfatti di aver criticato il governo e pontificato sui massimi sistemi e infine parlato dei ravioli di Shanghai. Tutto sembrava sotto controllo. E invece: dal primo di giugno in Cina è davvero vietato fumare nei luoghi pubblici al chiuso.

Xi Jinping non fuma
Un provvedimento nell’aria da tempo, perché i morti per cancro in Cina sono troppi e perché Xi Jinping non è un fumatore e sua moglie Peng è un’attivista della campagna nazionale contro il fumo, sussurrano alcuni. Sono voci, dicerie. Resta – in ogni caso – un duro colpo per parecchi cinesi, perché secondo i media internazionali, solo a Pechino ci sarebbero almeno 4,9 milioni di fumatori, che si fumerebbero almeno 15 sigarette al giorno. In effetti la percezione per chi arriva in Cina, è quella di un paese di fumatori accaniti.

È consuetudine offrire sigarette a cena, o quando si incontra qualcuno; è apprezzato lo straniero che fa lo stesso, nei centri massaggi c’è sempre un pacchetto di sigarette accanto alla poltrona, ai matrimoni, sui tavoli agghindati, ci sono sempre pacchetti di sigarette, le «Doppia Felicità» o altre ben più costose. È un segno del proprio status sociale, o almeno lo era. Ad esempio gli stranieri, in gran parte, fumano le «leggerine» Zhongnanhai numero 8. Pacchetto rigido, bianco e blu.

Si chiamano Zhongnanhai (il Cremlino cinese) perché furono prodotto e fabbricate appositamente per lui, il Grande Timoniere (che spesso si faceva ritrarre sigaretta in mano. Celebre la sua foto attorniato da ragazze, con una pronta a offrire il fuoco). E Zhongnanhai è anche il nome di una canzone di una nota rock band pechinese (i Carsick Cars), piuttosto in voga negli scorsi anni; ai loro concerti, quando suonavano nei club come lo Yugongnishan a Pechino, di solito chiudevano i loro concerti proprio con la canzone che dava il nome al gruppo: Zhongnanhai. Ed era abitudine tirare sul palco parecchie sigarette, rito pagano del rock locale.

Anche i «grandi» del paese – dunque – fumavano. Ci sono ancora in giro, e si dice siano le preferite dei funzionari, sigarette costosissime, anche 30 euro al pacchetto (in Cina un pacchetto costa poco più di un euro, infatti la spesa mensile per il fumo è di circa 20 euro) o addirittura 100 euro. Ci sono le «Panda» ad esempio, che erano fumate niente meno che da Deng Xiaoping.

La diplomazia del posacenere
Altro celebre scatto: Deng stravaccato su una poltrona, mentre rovista il pacchetto per prendere la sigaretta. È pronto ad accenderla. Accanto a lui c’è Henry Kissinger. Altri tempi: perché già dal 2013 ai funzionari del Partito è proibito mostrarsi in pubblico sfumazzanti. Per varie ragioni: una prima di educazione civica. Una seconda di salvaguardia. Qualche funzionario è stato beccato, attraverso foto che sono girate on line, durante conferenze stampa, con pacchetti di sigarette un po’ troppo costose per il proprio rango di funzionario «del popolo».

Gli esiti sono stati spesso catastrofici. C’è anche chi, per colpa delle sigarette, si è dovuto dimettere. Il fratello del premier Li Keqiang era il vice capo del potente monopolio dei tabacchi di Stato che fornisce dal 7 al 10 per cento delle entrate del governo, pari a quasi 816 miliardi di yuan nel 2013.
Li Keming, fratello minore del premier, era vice capo dell’organizzazione dal 2003. Si è dimesso, «risolvendo un potenziale conflitto di interessi, dato che la Cina è il più grande consumatore di tabacco del mondo», hanno scritto i media locali. Il vicedirettore Li Keming della State Tobacco Monopoly Administration ha lasciato il suo incarico e insieme a lui hanno fatto lo stesso diversi altri funzionari.

E adesso?
Cosa succede ora? Secondo i regolamenti in vigore «i trasgressori devono affrontare multe di 200 yuan (circa 25 euro), un forte aumento rispetto alla precedente penalità di 10 yuan». Coloro che infrangono le regole tre volte saranno «svergognati» su siti web del governo della città. Inoltre anche i ristoranti potranno essere puniti, se consentiranno ai propri ospiti di fumare all’interno dei locali. Ieri il South China Morning Post ha visitato «sette ristoranti» lungo la Guijie, la famosa «via dei fantasmi», con ristoranti aperti 24 ore su 24 a Pechino.

«Certo che si può fumare, non ho sentito parlare del divieto di fumo», avrebbe detto un cameriere al giornalista. Un manager è parso più informato: «Non forniamo più posacenere e accendini. Abbiamo anche smesso di vendere le sigarette. Se gli ospiti vogliono fumare, chiediamo loro di farlo fuori». E la Cina è annoverata tra i precursori della sigaretta elettronica. «Nel 2005 – ha scritto il Global Times – sono stati registrati 8 brevetti di invenzioni di e-sigarette. Nel 2012 la cifra era salita a 220 e l’anno scorso sono diventate 500».

[Scritto per il manifesto]