Le proteste a Hong Kong vanno avanti in un clima di generale tensione, dovuta anche a nuovi divieti alle manifestazioni da parte della polizia e con veleni di natura geopolitica che ormai caratterizzano il «discorso» internazionale su quanto sta accadendo nell’ex colonia. La Cina sta provando a etichettare quella di Hong Kong come una «rivoluzione colorata», espressione dalla connotazione negativa che evidenzierebbe la circostanza nella quale le manifestazioni sono pilotate da un paese terzo, in questo caso gli Stati uniti. E la situazione è talmente caotica da provocare anche circostanze bizzarre.
IERI ALL’AMBASCIATA CINESE a Roma è stata organizzata una conferenza stampa a inviti per rendere conto di quanto sta avvenendo. «Quanto accade a Hong Kong è una questione politica interna cinese e non abbiamo mai chiesto a potenze straniere di intervenire», ha detto l’ambasciatore cinese a Roma Junhua Li, secondo il quale «è innegabile che da giugno molti paesi, tra cui gli Stati uniti, abbiano iniziato a parlare di Hong Kong. Gli Usa hanno pubblicato un report che parla di una sorta di superamento del principio ‘un paese due sistemi’, hanno anche incontrato una delegazione dei manifestanti. Negli ultimi giorni è circolata l’immagine del capo dell’unità politica del consolato generale degli Stati uniti a Hong Kong (Julie Eadeh) che ha incontrato gli estremisti».
SI TRATTA DI UN TEMA SPINOSO: nel grande gioco nel quale sono impegnati Cina e Usa, Washington non esita – come ha fatto in altre circostanze, ad esempio in Ucraina – a giocarsi tutte le proprie carte nel sostenere ogni germe di opposizione alla Cina, in modo da costringere il partito comunista a dover gestire anche un fronte interno di cui sicuramente avrebbe fatto a meno. Ma è altresì evidente come la protesta in corso ormai da tempo a Hong Kong ha motivazioni e persone disposte a lottare a prescindere dal sostegno o meno degli Stati uniti.
LO HANNO DIMOSTRATO gli scioperi dei giorni scorsi, che hanno visto una grande partecipazione di lavoratori a testimonianza di come il fronte di chi manifesta sia ampio, sia anti-cinese, ma sia anche rivolto a richieste di maggiore equità e non per la difesa dello status quo. Da questo punto di vista, non è significativa quanto vorrebbe fare credere Pechino, la comparsa di bandiere americane o «coloniali» spuntate qua e là in mezzo alle proteste: la popolazione di Hong Kong non vuole certo tornare indietro.
Lo dimostra il sit-in di tre giorni non autorizzato iniziato ieri all’aeroporto internazionale, durante il quale è tornata a fare capolino in modo molto chiaro la richiesta del suffragio universale, insieme alle già note richieste di dimissioni di Carrie Lam.
I manifestanti chiedono anche revoca delle accuse penali contro chi ha protestato: Pechino ha infatti un’arma non da poco a disposizione: la repressione in corso in termini di arresti in piazza e quelli che probabilmente seguiranno.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.