La Cina saluta con favore i progressi degli Stati Uniti nell’affrontare i problemi del debito pubblico. Ma l’accordo raggiunto all’ultimo per scongiurare la prima insolvenza statunitense non è servito a dissipare i dubbi di Pechino, con la stampa e l’agenzia di valutazione Dagong all’attacco. La prima reazione ufficiale cinese è stata affidata al governatore della Banca centrale, Zhou Xiaochuan che pur con apprezzamenti per il compromesso, non ha esitato a chiedere a Washington misure "concrete e responsabili" per rafforzare la fiducia nelle proprie finanze. “Grandi fluttuazioni e incertezze sul mercato dei bond rischiano di influenzare la stabilità monetaria internazionale e il sistema finanziario, danneggiando la ripresa economica globale”, ha sottolineato Zhou con un invito a garantire la sicurezza degli investitori. Primo tra tutti proprio la Repubblica popolare che detiene 1.152 miliardi di dollari di debito Usa. Cifra che ne fa il principale creditore di Washington.
A metà luglio le riserve in valuta estera di Pechino, le più grandi del mondo, hanno raggiunto i 3.197 miliardi di dollari, con un rialzo del 30,3 per cento su base annua. In attesa dei dettagli del piano approvato martedì sera dal Congresso e con la promessa di sostenerne l’attuazione, il numero uno della Banca popolare cinese, ha però annunciato che la Cina continuerà a diversificare investimenti e gestione dei rischi, per mettersi al riparo dalle minacce che incombono sul dollaro. Tuttavia nota la Reuters, anche l’euro, principale alternativa alla moneta verde, è oggi “impantanata” in una crisi del debito. Ma, lo stesso ministro degli Esteri, Yang Jiechi, in visita in Albania, ha mostrato fiducia nella ripresa e nella stabilità europea, proponendosi come un investitore responsabile sui mercati internazionali. Il compito di attaccare a muso duro il piano è spettato invece ai media di Stato, con in prima fila l’agenzia Xinhua.
Già nei giorni scorsi, mentre la dirigenza manteneva un basso profilo, la stampa cinese non si era tirata indietro nel criticare la “pericolosa irresponsabilità” di repubblicani e democratici, il cui scontro “teneva in ostaggio” l’economia mondiale. E imputava all’impasse politica una debolezza del dollaro che avrebbe potuto trainare l’inflazione a livello globale. Ieri un’editoriale della Xinhua paragonava la crisi a una bomba non ancora disinnescata, che se dovesse esplodere -rischio al momento considerato soltanto rinviato- avrebbe ripercussioni “sul benessere di milioni di persone negli Stati Uniti e all’estero”. C’è anche chi, come fatto sul Quotidiano del popolo dal ricercatore dell’Accademia cinese per le Scienze sociali, Li Xiangyang, chiede un freno agli investimenti delle riserve cinesi in dollari, così da evitare ulteriori pericoli, temendo che l’innalzamento del tetto del debito si riveli “un’arma a doppio taglio” puntata sulla Cina.
La lama che pende sugli Usa si chiama invece declassamento. In attesa delle decisioni dell’agenzia di valutazione finanziaria Standard & Poor, gli altri due giganti occidentali, Moody’s e Fitch hanno deciso di rivedere al ribasso le aspettative sull’economia statunitense, ma di continuare ad assegnare al debito sovrano Usa il massimo dei voti: la tripla A. Controcorrente è andata invece la loro principale omologa cinese, la Dagong che ha abbassato il rating delle emissioni del Tesoro di Washington, da ‘A+ ‘a una singola A: Non una novità per l’agenzia salita alla ribalta a luglio di un anno fa perché per prima pose il rating statunitense al di sotto di quello cinese.
“La nostra decisione riflette semplicemente la realtà”, ha detto il presidente Guan Jianzhong, O ancora, citato dal Global Times: “dal nostro punto di vista gli Usa sono già insolventi”. Affermazioni che riecheggiano altre dichiarazioni di Guan come quella con cui imputò alla crisi del debito la scelta di intervenire militarmente in Libia: la guerra come forma estrema delle difficoltà finanziarie. Tra gli addetti ai lavori ci si interroga su cosa voglia veramente la Dagong, agenzia privata, ma autorizzata dal governo di Pechino che ne favorì l’istituzione nel 1994, e a cosa punti con scelte su cui le rivali occidentali tentennano.
Come scrive il Wall Street Journal, le ipotesi sono due: si tratta di una cassandra capace di vedere in anticipo i problemi degli Usa o forse semplicemente un’azienda impegnata in una campagna di auto-promozione per imporsi in un mercato dominato dai tre grandi nomi anglosassoni, il cui oligopolio appare sempre più nel mirino dei governi.
[Anche su Il Riformista]