Cina e Stati Uniti sono ai ferri corti come forse non era mai accaduto negli ultimi anni. La guerra dei dazi è solo l’elemento più dirompente all’interno di un rapporto che sembra via via cadere a pezzi. Per la prima volta al termine dell’incontro dell’Apec – la principale organizzazione regionale dell’area Asia-Pacifico – non si è arrivati a una dichiarazione congiunta proprio per gli screzi tra i due giganti.
E sono volate parole forti. Il vice presidente degli Stati Uniti ha sostenuto la posizione di Washington contro Pechino, sia sulla sicurezza che sul commercio: «Abbiamo intrapreso azioni decisive per risolvere il nostro squilibrio con la Cina, abbiamo introdotto tariffe per 250 miliardi di dollari sui prodotti cinesi e potremmo più che raddoppiare quel numero». Gli Usa, ha detto Pence, «non cambieranno rotta fino a quando la Cina non cambierà». Attacco durissimo poi al vero problema statunitense, ovvero la Nuova Via della Seta, la proiezione globale per il futuro della Cina di Xi Jinping: il vicepresidente statunitense l’ha definita una “cintura costrittiva” e una “strada a senso unico”.
Da parte cinese Xi Jinping ha difeso la Nuova Via della Seta, mentre il ministro degli Esteri Wang Yi ha risposto a Pence: «Non è assolutamente accidentale che l’incontro si sia concluso senza un comunicato», ha detto Wang, perché «alcune economie hanno rifiutato di accettare i ragionevoli consigli di revisione proposti dalla Cina e da altre parti». Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, ha dichiarato poi che i Paesi in via di sviluppo si oppongono al protezionismo commerciale. Un chiaro riferimento a Washington.
Ma non è finito tutto all’Apec. Alcuni giorni dopo sono partite nuove accuse. Il rappresentante del commercio Usa, Robert Lighthizer, ha affermato che «La Cina non ha sostanzialmente alterato le sue pratiche inique, irragionevoli e distorsive del mercato», specie per quanto riguarda le cessioni di tecnologia cui sono costrette le aziende Usa che operano in Cina, mentre in sede di Wto le due parti si sono accusate reciprocamente di ipocrisia.
Ma nei giorni che precedono il G20 – evento durante il quale Trump e Xi Jinping dovrebbero incontrarsi – ogni occasione è buona per stuzzicarsi. Dietro le quinte della ben più nota guerra commerciale – che, come ha ricordato il presidente cinese di recente, raramente vede un vincitore – Pechino e Washington stanno affilando le lame: la scorsa settimana Washington ha annunciato l’equiparamento di alcuni settori economici legati all’intelligenza artificiale alla stregua di altri settori ritenuti fondamentali per la sicurezza nazionale. In questo modo Trump vuole chiudere alla possibilità da parte cinese di investire in acquisizioni di aziende statunitensi da cui poi Pechino, secondo le accuse americane, ruberebbe proprietà intellettuale per favorire le sue aziende nazionali.
Nel frattempo Pechino procedeva a dichiarare che nel Mar cinese meridionale è giunta l’ora di dedicarsi a progetti civili e non solo militari, ribadendo agli Usa quanto il presidente filippino Duterte aveva già detto nei suoi consueti toni poco diplomatici: la Cina – di fatto – possiede già tutto il Mar cinese meridionale.
Screzi, colpi di mano, decisioni interne che spingono le due potenze a un confronto sempre più serrato, tanto che ormai la cosiddetta “trappola di Tucidide” è diventata un luogo comune applicato all’attuale situazione.
Ci si chiede, in pratica, memori dello scontro tra Sparta e Atene, se il sopraggiungere di una nuova potenza possa portare a uno scontro bellico con la potenza che fino ad allora aveva dominato. Ovvero: Cina e Usa, in questo loro balletto diplomatico giunto ormai a toni accesi, arriveranno mai a un conflitto militare – diretto o per procura, verrebbe da specificare – per risolvere la questione della supremazia mondiale?
In queste previsioni si stanno spendendo svariati esperti, ma la sensazione è che eventualmente se si dovesse identificare una zona a rischio, questa sarebbe proprio quella del mar cinese meridionale; più in generale c’è da credere che la Cina mai cercherà uno scontro militare, tanto meno diretto; ma dall’altra parte c’è Trump e tutta la sua imprevedibilità, almeno per ora.
E proprio il presidente americano, però, potrebbe costituire il game changer della situazione: c’è molta attesa infatti per l’incontro al G20 in Argentina con Xi Jinping. Trump potrebbe infatti aver affidato la parte del poliziotto cattivo al vicepresidente Mike Pence, riservando per sé la parte del poliziotto buono al prossimo incontro con Xi Jinping.
Di certo gli Usa in questo momento hanno nella Cina il proprio principale avversario, ma non si può dimenticare che l’amministrazione Trump sta peggiorando tutti i rapporti in Asia: Giappone e Corea del Sud, ad esempio, nonostante gli accordi con Washington – quello coreano firmato di recente – temono che le sanzioni contro le automobili straniere possano colpire anche i propri produttori.
Pechino dunque avrebbe buon gioco in Asia a mantenere le proprie posizioni. Ma i dazi americani cominciano a pesare, un minimo sulla sua economia, in rallentamento e soprattutto preda di un lieve aumento dei consumi e improvvisamente considerata a rischio da molte famiglie che temono per i propri patrimoni.
Pechino per ora predica calma ben sapendo che anche un’altra eventuale imposizione di dazi non costituirebbe ancora lo scenario peggiore in cui trovarsi.
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.