Da Al Bayda a Pechino, passando per mezza Asia e sognando i Caraibi. Storia on the road di Ahmad e Ali, profughi diversi, migranti in contromano. Due commercianti yemeniti scappano dal Paese in guerra e bucano le frontiere mettendo mano al portafoglio. Ma non trovano comunque pace. Ahmad Saleh, 33 anni, due mogli.
Ali Mohammad Saadi, 51 anni. Una moglie sola. Che però ha studiato in Egitto, lavorato in Libano e gli cucina piatti della Siria.
Pechino, dicembre 2015. Li incontro in una delle birrerie artigianali che sono proliferate come funghi negli ultimi due-tre anni. Saadah, l’amico palestinese che è finito qui con una borsa di studio e non si è più mosso, siede a un tavolo con loro e me li presenta.
Colpisce soprattutto il volto scavato di Ali, tutto zigomi e occhi. Si esprime concitato in arabo, complice la pinta di birra che ogni tanto agita per aria nell’enfasi del discorso; capisce l’inglese, ma non si fida del proprio parlato. Saadah traduce mentre Ahmad osserva divertito. Lui parla poco e aggiunge con puntualità i dettagli che Ali, nella foga, trascura. Ahmad, volto più morbido e occhi che ridono. Lui il preciso, Ali l’evocativo. Il più giovane mette autorevolezza al servizio del più vecchio, ribaltamento della regola confuciana in vigore da queste parti.
«Veniamo dalla città di Al Bayda, nel centro dello Yemen, che si trova nel bel mezzo della guerra. Da noi ci sono molti militanti di al Qaeda, che sono saltati fuori quando gli huthi hanno preso il potere», racconta Ali.
A ottobre 2014, un’autobomba ammazza nove uomini delle forze di sicurezza proprio ad Al Bayda. Al Qaeda rivendica, accusando le autorità locali di essere complici del «complotto persiano» proveniente dall’Iran.
«Siamo due commercianti e facciamo import-export con l’Oriente. Vendiamo sia in Yemen sia in Arabia Saudita: soprattutto vestiti, scarpe, ma anche materiali di costruzione e tutto quello che ci capita di importare dalla Cina.»
Sono benestanti a modo loro, collegati a imprenditori locali cinesi e figli del commercio sud-sud tra ex Impero Celeste e penisola arabica, quello che sfugge ai nostri riflettori e alimenta il sogno del decoupling, l’emancipazione economica dal nord del mondo. «A Sana’a, per la guerra, hanno chiuso aeroporti e ambasciate straniere e il business soffriva – continua Ali – così abbiamo deciso di andarcene con i contanti che avevamo a disposizione.» Quanto? È il taciturno Ahmad che controlla i soldi. Centocinquantamila dollari o giù di lì. Cash.
Il palestinese Saadah è comunista, lo rivendica. Figlio di un dirigente del Partito che ha passato diciott’anni nelle galere israeliane. Insiste a spiegare qual è lo sfondo su cui si svolge la storia dei suoi amici erranti dello Yemen.
«Saleh divide et impera, capisci? Lui ha sfruttato le domande di welfare degli huthi e le loro proteste perché si sentivano discriminati lassù al nord. Così da un lato reprimeva loro, dall’altro combatteva i fratelli musulmani che stavano diventando sempre più forti e quindi una minaccia per lui. Sono tutte storie quelle del conflitto tra sunniti e sciiti. Gli huthi non sono sciiti al cento per cento, sono zaydisti. Se si parla di culto, per me sono quasi più simili ai sunniti che agli sciiti dell’Iran. Il problema è politico, altroché.»
La recente storia dello Yemen in un minuto scarso. Saleh, l’ex presidente e uomo forte dello Yemen viene abbattuto dalle proteste popolari del 2012, e costretto a lasciare il potere al suo vice, Hadi. Continua però ad agire nell’ombra, forte dei propri collegamenti con i servizi di sicurezza. In passato, ha sempre perseguitato gli huthi, ma quando la loro rivolta acquista slancio, tra 2014 e 2015, lui getta il suo peso dietro gli ex nemici, fino all’abbattimento di Hadi e alla conquista del palazzo presidenziale di Sana’a, nel gennaio 2015. In un quadro di guerra civile permanente, con la presenza di gruppi legati ad al Qaeda nello Yemen profondo e le ombre di Iran e Arabia Saudita che si stagliano sullo sfondo, Hadi fugge ad Aden, che proclama “capitale provvisoria”. A quel punto, per estendere la propria longa manus e limitare l’influenza iraniana, i sauditi cominciano a bombardare Sana’a, gli huthi e anche un paio di cliniche di Medici senza Frontiere, guadagnandosi l’accusa di commettere crimini di guerra da parte di Amnesty International. La storia sta continuando, ma è proprio in quei primi mesi del 2015 che Ali e Ahmad decidono di levare le tende. Salutano le mogli promettendo di tornare a riprenderle, rastrellano i propri risparmi e via, verso Oriente, migranti diversi per una diversa migrazione. In contromano. Così, con la metaforica valigetta che ricorda quella di un piccolo imprenditore italiano ai tempi dei fondi neri travasati in Svizzera, i due fuggiaschi vanno in Oman e poi in Thailandia con un visto facile.
Nel video che conserva sullo smartphone come un ricordo di gioia fugace, Ali danza con una ragazza thailandese. La camera d’albergo è spoglia, lei è di taglia abbondante, sembra quasi un corpo levantino su cui sia stato trapiantato un volto del Sudest Asiatico, il vestitino leggero che finisce sopra il ginocchio rivela gambe robuste. Ali ha cercato l’amica che più suscita ricordi di casa, ma gode della momentanea libertà del senza patria, per questo ancora più felice. Le gira attorno saltellando, secco e scavato, come un ragno nero con la preda che si è volontariamente infilata in quella ragnatela perché sa benissimo di uscirne indenne e con un gruzzolo in tasca. Troppo ubriaco quel ragno.
«Siamo rimasti due mesi in Thailandia», continua Ali. «Volevamo prendere un permesso di residenza, pagando, ma non ce l’hanno dato, forse perché siamo yemeniti. Poi siamo andati in Malaysia e da lì in Cina. Da Kuala Lumpur abbiamo pagato duemila dollari per due visti cinesi di un mese, fatti in un’agenzia. Siamo rimasti allibiti che costasse tanto.»
Troppi problemi burocratici e soldi da distribuire qua e là per oliare gli ingranaggi. I due yemeniti erranti, giunti in Cina, si danno da fare per trovare una soluzione stabile.
«Abbiamo sentito che c’è un’isola nei Caraibi, Saint Vincent e Granadine, dove gli yemeniti non hanno bisogno del visto», spiega Ahmad.
«Permette l’ingresso anche a noi, capito?», continua Ali. «Ogni persona che investe in quel posto 200mila dollari può avere la cittadinanza.» Loro pensano di potersi procurare quei soldi.
Inversione a U, cambio di direzione.
«Abbiamo fatto i biglietti online con British Airways, 27mila dollari di Hong Kong [oltre tremila euro, ndr]», racconta Ali. «Si parte da Pechino, si atterra a Heatrow e si riparte da un altro aeroporto di Londra che non so neanche pronunciare ma che inizia con la “L”. Allora siamo andati all’agenzia di British Airways a Pechino per chiedere informazioni dopo aver preso il biglietto via internet. Ci hanno detto di no, che per partire avremmo dovuto avere un visto di transito, visto che a Londra saremmo ripartiti da un altro aeroporto. Ci siamo precipitati all’ambasciata britannica e li ci hanno detto che i visti per yemeniti sono sospesi per ragioni di sicurezza. E biglietti online cha abbiamo fatto non sono rimborsabili.»
Pazienza, i due uomini hanno un discreto gruzzolo e decidono di trovare un’altra strada per arrivare a Saint Vincent e Granadine. Scoprono che ci si può andare anche via Canada, senza dover cambiare aeroporto al momento del trasferimento.
«Abbiamo comprato altri biglietti online e il giorno della partenza ce ne siamo andati tranquilli all’aeroporto di Pechino – spiega Ahmad – ma al check-in ci hanno respinti. La scusa era che non avevano un visto di transito per il Canada. Gli abbiamo spiegato che avremmo dovuto starci solo tre ore e che saremmo atterrati e ripartiti dallo stesso aeroporto. Niente. Non sapevamo più che fare, abbiamo perfino offerto ventimila dollari di garanzia da lasciare al check-in di Pechino, ma a momenti ci arrestano, niente da fare.»
Lasciati lì, in mezzo all’aeroporto, con le valigie in mano. Ed eccoli nella birreria di Pechino. «Noi non vogliamo l’asilo politico in Canada – continua Ali – vogliamo solo essere liberi di muoverci, capisci?»
Si inalbera sempre di più, gli occhi sembrano uscirgli dalla testa.
«Sono otto mesi che paghiamo tantissimo per ogni visto dei Paesi dove andiamo e per i contatti, da Riad in Arabia Saudita su su per tutta l’Asia. La nostra storia deve essere raccontata in nome dell’umanità, prima ancora che per noi, per lo Yemen o per gli arabi. Siamo esseri umani e abbiamo diritto di muoverci.»
Si fa messianico, Ali. «Noi auguriamo pace a tutto il mondo. Guardate in che condizioni ci ha ridotto il nazionalismo arabo e tutto quello che è arrivato dopo. Forse, se ci fossero stati ancora gli inglesi che controllavano Aden sarebbe andata meglio. C’è un equivoco, qui. Noi abbiamo viaggiato dappertutto e ci piacciono perfino gli Stati Uniti e Israele. Non ce l’abbiamo con nessuno, ma abbiamo diritto di vivere. Guardiamo, ascoltiamo, beviamo l’acqua, parliamo le lingue, come tutti gli altri. Però ultimamente ci sentiamo come se non facessimo parte di questo pianeta: “Out”. Questo non è giusto.»
Saadah e Ahmad lo guardano un po’ perplessi, ma lui è partito per la tangente.
«Cos’è il Rinascimento? Cos’è la cultura, cos’è la coscienza che il popolo della terra ha accumulato? Osservo la fine di tutta questa conoscenza, non è giusto, è la morte della giustizia. Ora rimpiango lo sforzo intellettuale che hanno fatto i grandi del Rinascimento, per costruire le loro idee e aprire nuove strade all’umanità.»
Trasmette sempre più simpatia, nel senso di condivisione di un’emozione, di un destino. Sarà quel riferimento al Rinascimento un po’ ruffiano. Sarà quella capacità così spiccata di saltare da un livello espressivo all’altro.
«La vita moderna è difficile – continua – finora noi stiamo in piedi. ma magari altri non ce la fanno. Ma perché le cose sono andate male? C’è sicuramente qualcosa di storto, ma non lo capisco. Non è giusto. Gli esseri umani sono esseri umani. Forse è la classe politica corrotta che crea differenze tra i popoli, ma alla fine ognuno ha bisogno dell’altro. Se tu sei l’ombra, io sono il sole. E viceversa. Ho bisogno dei prodotti agricoli che tu produci. E viceversa. Questa è la vita, scambio. La figura umana è una, i bisogni sono gli stessi. L’ultima cosa che voglio dire è che io e Ahmad. amiamo tutti i popoli del modo.»
Fine. Siamo tutti a bocca aperta. Scambio, bisogni umani, l’ombra e il sole. Credo di avere appena assistito a un trattato di ecumenismo venduto sulla bancarella di un mercato levantino. Un migrante yemenita cui non permettono di migrare è il profeta errante nell’epoca della globalizzazione.
Finiamo le nostre birre. «Un tempo mi bevevo fino a una bottiglia di whisky al giorno, poi ho messo la testa a posto», conclude Ali.
Ci abbracciamo, si allontana traballante con il suo amico.
Ali e Ahmad sono partiti, Il loro visto cinese stava per scadere. Sono stati tre-quattro giorni a Yiwu, in Zhejiang, la città da un milione di abitanti che produce tutte le carabattole che i cinesi esportano in Medio Oriente. Ci sono le moschee, a Yiwu, è in qualche modo pure casa loro. Da lì partono i container pieni delle merci che anche i due yemeniti erranti commerciano nel proprio Paese e in Arabia Saudita. Da lì originano i 150mila dollari che li stanno portando in giro per il mondo, alla ricerca di un approdo felice.
A Yiwu, l’ennesimo contatto ha trovato loro un visto per tornare in Malaysia, in attesa di capire come arrivare a Saint Vincent e Granadine. Adesso, sono lì che si agitano e rimbalzano nel Sudest Asiatico, comprando visti e biglietti aerei, sognando i Caraibi.