Cada un’impalcatura, muoiono in settanta. Non è la prima né, probabilmente, l’ultima tragedia sul lavoro che affligge la Cina. Il governo di Pechino cerca di porvi rimedio identificando i responsabili e dando loro punizioni esemplari nel più breve tempo possibile. Ma le ragioni materiali sono più profonde. Mentre scrivo è di 67 morti e 5 feriti il bilancio del disastro avvenuto il 24 novembre in un cantiere a Yichun, nella provincia sudorientale cinese del Jianxi, dove si stava costruendo la torre di raffreddamento di una centrale elettrica. Sono crollate le impalcature all’interno della torre e i lavoratori sono precipitati dall’alto o sono rimasti schiacciati. Si dice che, quando è avvenuto il disastro, gli uomini al lavoro fossero 70.
La Cina non è nuova a questo genere di tragedie, ce n’è una lista infinita, e due giorni prima del crollo della torre, sempre a Yichun, 21 minatori erano rimasti intrappolati a causa di un improvviso allagamento delle gallerie che stavano scavando. Quattordici uomini sono stati tratti in salvo e sette sono ancora sotto terra.
Yichun è un distretto di cinque milioni di abitanti e il Jianxi è una delle province più povere della Cina, da dove la gente emigra in massa verso le aree circostanti più ricche. Immaginate un Veneto – non quello benestante di oggi, ma quello dei nostri bisnonni – in cui avvengano due tragedie sul lavoro così ravvicinate.