La stretta dello scorso agosto sancisce un “grande balzo in avanti” verso questa direzione: innanzitutto perché estende il target della repressione, coinvolgendo non solo realtà con decenni di esperienza. Ma la recente campagna del governo si distingue anche per l’impiego di nuove modalità di controllo.
In occidente c’è San Valentino, in Cina c’è la festa di Qixi, la ricorrenza che il settimo giorno del settimo mese lunare (di solito agosto) vede le coppie cinesi celebrare l’amore con appuntamenti romantici e regali. Quest’anno, proprio alla vigilia della festività, diverse organizzazioni per i diritti LGBT+ hanno denunciato la chiusura permanente dei propri account WeChat. Alcune – tra cui Beijing Lala Salon – operavano fin dai primi anni Duemila come organizzazioni non governative, offrendo servizi sociali per lesbiche e altre minoranze sessuali.
Sebbene in Cina l’omosessualità sia stata decriminalizzata da oltre venti anni, fatica ancora ad essere accettata, soprattutto lontano dai grandi centri urbani. Internet – per quanto rigidamente regolamentato – per diverso tempo è rimasto un canale attraverso cui poter esprimersi senza dover nascondere la propria diversità. Le maglie del web hanno cominciato a restringersi nel 2017, quando le autorità cinesi hanno bandito i contenuti LGBT+ dai programmi in rete, equiparando l’omosessualità agli abusi sessuali sotto la comune etichetta delle “relazioni sessuali anormali”. Nel 2021 decine di account social collegati a gruppi studenteschi LGBT+ sono stati disabilitati.
La stretta dello scorso agosto sancisce un “grande balzo in avanti” verso questa direzione: innanzitutto perché estende il target della repressione, coinvolgendo non solo realtà con decenni di esperienza – come il Beijing LGBT Centre – ma anche organizzazioni per la difesa dei diritti transgender, una categoria uscita allo scoperto solo a partire dal 2016. Anni in cui, mentre l’attenzione dei cybercensori era tutta focalizzata sulla parola “gay”, lesbiche e trans riuscivano ancora a trovare degli spazi di espressione online. Come spiega su X (l’ex Twitter) l’account @heng2000ttt, tutto è cambiato da quando al Cyber Administration (CAC), il massimo organo regolamentatore di internet, e altre istituzioni affiliate allo Stato hanno iniziato ad associare in blocco la categoria “LGBT+” alla presunta importazione dei costumi occidentali. Quindi a un’influenza destabilizzante e antitetica rispetto ai valori tradizionali promossi dall’amministrazione Xi Jinping. È piuttosto indicativo che, oltre ai gruppi omosessuali, WeChat abbia bannato anche alcune attiviste femministe, che, difendendo l’emancipazione delle donne, – secondo la vulgata ufficiale – disincentivano i matrimoni contribuendo per estensione al preoccupante calo demografico.
Ma, come notato da alcuni attivisti, la recente campagna del governo si distingue anche per l’impiego di nuove modalità di controllo. Un lascito della gestione pandemica. Contact tracing e le famigerate app sanitarie sono state smantellate, ma la mania per la sorveglianza di massa è sopravvissuta alla rimozione delle misure anti-Covid. A esacerbare le paure del governo hanno contribuito le proteste contro i lockdown del novembre 2022 che – come solo raramente accaduto in Cina – ha trovato espressione anche offline in varie parti del paese. Coordinate attraverso VPN (software che permette di navigare sui siti vietati stabilendo una connessione protetta) e piattaforme crittografate come Telegram, le mobilitazioni hanno calamitato l’attenzione delle autorità sul potenziale destabilizzante della rete. Recentemente diverse persone in alcune località hanno lamentato controlli random della polizia sugli smartphone dei passanti, mentre ad agosto un programmatore dello Hebei ha dovuto pagare una multa di 1 milione di yuan (circa 130mila euro) per aver usato una VPN.
Solo tra il 10 marzo e il 27 maggio, la CAC ha stabilito la chiusura di 67.000 account social nell’ambito di una campagna di “rettifica” contro la disinformazione e i comportamenti illegali. Quello stesso mese la no-profit Beijing LGBT Centre ha terminato tutte le attività dopo quindici anni. Come spiegato al South China Morning Post dal responsabile di un gruppo vicino alle minoranze sessuali con base nella Cina meridionale, negli ultimi tempi è diventato molto difficile riuscire a contattare la rete di volontari sparsi per il paese. Si finisce nel mirino della polizia anche solo postando su WeChat la bandiera arcobaleno o il logo dell’organizzazione. Per dribblare i controlli occorre ricorrere a escamotage creativi, come mandare gli articoli il venerdì sera e cancellarli la domenica per sfruttare il calo dell’attenzione dei censori nel weekend.
Sopravvivere nella “Nuova era” di Xi non è impossibile, ma occorre venire a compromessi. Sono sempre di più le realtà LGBT+ a occultare la propria vera missione dietro un’offerta di attività meno sensibili e persino incoraggiate dalle autorità locali, come la lotta all’Aids. Un’altra strategia consiste nello spostare l’advocacy all’estero. Lo Shanghai Pride, sospeso nel 2020, quest’anno per esempio ha pubblicizzato l’Asian Pride di Amsterdam e ha invitato la propria community su Facebook a partecipare ad alcuni webinar sul tema.
Guarda oltreconfine anche la dating app Blued, risparmiata dalla scure dei censori cinesi. Offrendo servizi di prevenzione dell’HIV e di educazione sessuale in linea con le iniziative della sanità pubblica, il cosiddetto “Grinder cinese” fino a oggi è riuscito a farsi discreto promotore dei diritti LGBT+, laddove altre app di incontri queer come Zank e Rela sono state espulse più volte dagli store cinesi. Ma, con i tempi che corrono oltre la Muraglia, anche Blued comincia a pianificare il proprio futuro oltreconfine, in particolare nel vicino Sud-Est asiatico. Il servizio per la procreazione assistita BluedBaby (che permetteva di contattare agenzie specializzate in California), invece è stato chiuso dopo lo scandalo che nel 2021 ha coinvolto l’attrice Zheng Shuang, accusata dal compagno di aver abbandonato i due figli avuti con la maternità surrogata.
Nonostante il controllo sempre più stringente, sul web cinese è ancora possibile trovare residuali spazi di espressione. Ad agosto, secondo Freedom House, mentre la polizia ha smantellato sei dei nove eventi per commemorare il mese del Pride organizzati in presenza a Shanghai, Shenyang, Shenzhen, and Guangzhou, su Weibo un post collegato alla ricorrenza ha totalizzato 1,4 milioni di visualizzazioni.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.