Dopo Tibet e Xinjiang, Pechino abbatte il suo pugno duro sulla minoranza mongola, tra imposizioni linguistiche e dissenso popolare. La nostra analisi in collaborazione con Gariwo Onlus
Il 1° settembre si è conclusa una lunga transizione verso l’uso del mandarino (putonghua) come unica lingua di insegnamento nella Mongolia Interna, la regione autonoma della Cina settentrionale al confine con la Russia e la Mongolia. Tutto è cominciato tre anni fa, quando nell’agosto 2020, a pochi giorni dal rientro nelle scuole, le autorità locali hanno reso noto un piano di riforma per le scuole elementari e medie che prevedeva l’utilizzo del putonghua (il dialetto più comune) per l’insegnamento di alcune materie: lingua e letteratura, legge e moralità (educazione civica), e storia. All’annuncio sono seguite accese manifestazioni di dissenso: per giorni i genitori hanno protestato contro la revisione. Non solo inscenando sit-in ed esponendo striscioni davanti alle scuole: il mese successivo il numero delle iscrizioni negli istituti locali è crollato verticalmente. Sforzi inutili. Sedati i malumori a suon di arresti e minacce, lo scorso mese la preannunciata riforma è stata portata a termine con l’adozione di misure anche più stringenti di quanto preventivato inizialmente: l’obbligo del mandarino è stato esteso a tutte le materie delle scuole primarie e secondarie. Persino all’insegnamento negli asili. A partire dal 2025, anche gli esami di ammissione all’università dovranno essere sostenuti in cinese standard, anziché in mongolo.
Una questione culturale
Per Pechino, l’apprendimento del putonghua è essenziale per agevolare l’integrazione dei gruppi minoritari, fornire opportunità di lavoro e ridistribuire il benessere economico concentrato nelle province costiere. Difficile però non notare come la standardizzazione linguistica sia lentamente sconfinata in un’offensiva culturale. Lo scorso 25 agosto, l’Associazione dell’industria dei libri e della distribuzione periodica della regione autonoma della Mongolia Interna ha sospeso la circolazione della raccolta “Storia generale del gruppo etnico mongolo”, invitando gli operatori del settore ad “aderire alla corretta prospettiva storica del Partito e opporsi risolutamente al nichilismo storico”. I volumi, pubblicati nel 2004, erano stati precedentemente lodati dalle autorità centrali per il loro “approccio scientifico” e anzi criticati dagli studiosi mongoli per aver esaltato eccessivamente la “cinesità” della popolazione locale. Segno di come, negli ultimi anni, Pechino abbia maturato una percezione ancora più restrittiva del dissenso. Lo dimostra il tentativo nel 2020 di censurare una mostra dedicata a Gengis Khan organizzata dal museo di Nantes, in Bretagna, che secondo il governo cinese rievocava il passato imperiale pan-mongolo.
Una minoranza anche a casa propria
In Cina vivono oltre 2 milioni di mongoli su una popolazione complessiva di 1,4 miliardi di persone, di cui oltre il 90% appartenente all’etnia maggioritaria han. Anche nella Mongolia Interna i mongoli rappresentano ormai una minoranza, pari a meno del 20% della popolazione locale. Ricca di risorse minerarie, la regione autonoma, fondata nel 1945, è diventata un polo estrattivo di importanza nazionale. Fattore che ha incentivato ondate migratorie provenienti da altre parti del Paese e la requisizione dei terreni tradizionalmente utilizzati per il pascolo. Negli ultimi trent’anni, scontri tra imprese minerarie e le comunità di pastori sono diventati la normalità. Tanto che nel 2013 Pechino ha dichiarato “la fine della civiltà nomade” annunciando il “reinsediamento dell’ultimo gruppo di 1,2 milioni di pastori itineranti”.
Che negli ultimi tempi le frizioni – inizialmente di natura economica – abbiano assunto connotazioni identitarie è un elemento non di poco conto. A partire dai primi anni Duemila più o meno tutte le aree del Paese abitate dalle minoranze tibetane e musulmane sono state soggette a misure di assimilazione linguistica e culturale. La Mongolia Interna era rimasta un’eccezione più unica che rara: i mongoli tendenzialmente non si ribellano con esplosivi e coltelli come gli uiguri, né si autoimmolano come i tibetani. Questo ha permesso una convivenza interetnica per decenni relativamente armoniosa. Come osservato da Christopher P. Atwood, esperto dell’Università della Pennsylvania, anche prima della stretta normativa, il numero di studenti nelle scuole di etnia mongola era già in calato, passando da oltre il 60% del totale negli anni ’90 a circa il 30% nel 2019. Il fatto è che, preoccupati dalla necessità di assicurare ai propri figli un buon futuro lavorativo, molti genitori hanno gradualmente cominciato a optare per l’insegnamento in mandarino senza bisogno di particolari imposizioni dall’alto. La riforma è stata quindi percepita come una forzatura non necessaria.
Le “politiche etniche di seconda generazione”
Come e perché si è passati al pugno di ferro? La vera svolta è avvenuta il 20 gennaio 2021, quando la Commissione per gli Affari Legislativi ha dichiarato incostituzionali i regolamenti locali che limitano l’utilizzo del mandarino nelle scuole etniche. Come spiegava all’epoca su China Files Guido Alberto Casanova, Junior Research Fellow dell’ISPI, “inquadrando la questione in termini di costituzionalità, le autorità hanno evidenziato che alla base della riforma scolastica non c’è una decisione di opportunità politica ma piuttosto di strutturazione delle istituzioni nazionali”. Questa linea incarna i precetti della cosiddetta “politica etnica di seconda generazione”, promossa da alcuni intellettuali cinesi con ampio ascolto tra l’establishment in opposizione alla corrente sovietica della “prima generazione”. Se all’epoca di Mao si era cercato di dare un discreto grado di autonomia ai gruppi etnici minoritari, negli ultimi anni il crollo dell’Urss è diventato caso di studio per i funzionari del Partito: un esempio da non seguire, soprattutto rispetto alla gestione troppo permissiva delle spinte indipendentiste nelle varie Repubbliche sovietiche.
Al contrario, la direzione sostenuta oggi dal presidente Xi Jinping sembra procedere verso la costruzione di una coscienza e un’identità nazionale condivisa e trasversale, eliminando distinzioni tra han e minoranze. Salvo risparmiarne (addirittura esaltare) gli aspetti meramente folkloristici: danze, festività, tradizioni gastronomiche e quanto utile a preservare una parvenza di tolleranza, depoliticizzando al contempo i caratteri distintivi delle etnie minoritarie. Il cambio di passo è stato ufficializzato a giugno quando, visitando la regione autonoma, il presidente ha sottolineato l’importanza di “rafforzare un senso di identità nazionale” tra i mongoli con “l’introduzione di leggi, regolamenti, politiche e misure”.
Va notato come la strategia coercitiva di Pechino pare aver avuto l’effetto opposto a quello sperato. Invece che scoraggiare usi e costumi tradizionali, ha aizzato un sentimento pan-mongolo fino a oggi poco diffuso nella regione autonoma. Dopo che nel 2019 la bandiera della Mongolia è apparsa sui muri di una scuola a Chifen, lo scorso anno un pilota di etnia mongola della Sichuan Airlines è stato assalito sui social cinesi per aver pubblicato commenti razzisti e anti-han.
(Poca) solidarietà da oltreconfine
La matrice etnica comune ha reso la riforma scolastica cinese una questione delicata anche per il governo di Ulan Bator, chiamato dalla società civile mongola a prendere le parti dei “cugini” oltreconfine. Creato volontariamente da giovani, scrittori e studiosi mongoli il 30 agosto 2020, il gruppo Facebook “Salva la lingua mongola: Эх хэлээ аваръя” ha rapidamente attirato oltre 12.000 membri. Anche l’ex presidente, Cahiagijn Ėlbėgdorž, si è dimostrato piuttosto solidale, sebbene non sia andato oltre gli appelli social. Una sua lettera indirizzata a Xi pare non sia nemmeno mai arrivata. D’altronde, non è facile alzare la voce quando in ostaggio ci sono scambi commerciali per oltre 10 miliardi di dollari. Con la Russia impegnata a combattere in Ucraina, il partenariato economico con la Cina acquisisce un valore strategico persino maggiore che in passato.
Senza una sponda amica al di là della frontiera, la resistenza in Mongolia Interna diventerà probabilmente sempre più flebile.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.