All You need is Data. È questo il leitmotive esplorato dalla mostra collettiva Art Post-Internet (Pechino, 798, Ucca, fino all’11 maggio 2014) in cui Internet è insieme strumento e spazio artistico da esplorare. Si rinnovano intere categorie di simboli, trasposizioni e immaginario. Un nuovo immaginario sta sostituendo la logica aristotelica a cui eravamo abituati da secoli.
L’uomo interagisce con la tecnologia, ma è quest’ultima che si trasforma in narratore ultimo nell’opera del newyorkese Tyler Coburn. NaturallySpeaking: due screensaver e il racconto sperimentale recitato da una voce femminile metallica. Una voce che, ad ascoltarla bene, si fa sempre più famigliare. È molto più importante dei contenuti che esprime. È Siri, l’intelligenza artificiale con cui interagiamo quando proviamo a comunicare le nostre esigenze ai device Apple.
Il titolo della mostra potrebbe trarre in inganno. Non si tratta di descrivere il mondo artistico dopo Internet, ma un mondo che ne è imbevuto e, soprattutto, non sa più pensarsi senza di esso. Un mondo globalizzato, in cui si passa dalla realtà al virtuale senza avere la sensazione di aver varcato alcun confine. Anche un autoritratto, oggi non è più così scontato. Di fatto scegliamo quotidianamente una serie di immagini bidimensionale che ci rappresentano nei nostri profili “social”.
È così che un contenitore in ceramica per il tè con raffigurato un coniglio smette di essere un oggetto di uso quotidiano e diventa rappresentazione di sé (Self-Portrait, Bunny Roger). In questo mondo sempre più liquido e immateriale anche la rappresentazione della propria identità subisce un processo di semplificazione e astrazione che la trasforma in un marchio.
Siamo nell’antropocene, l’era geologica attuale in cui l’attività umana è la causa prima delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Ma sopratutto l’epoca in cui la realtà ci arriva mutuata dalla sua rappresentazione. L’occhio umano diventa così obiettivo fotografico e gli animali si trasformano in sterili pannelli bidimensionali in tecnicolor. L’unica prospettiva ammessa è quella frontale e l’abitat biologico perde di importanza (Approximation, Katja Novistkova).
Un’espressione artistica, quella rappresentata dalle opere in mostra, che è estremamente concettuale e ricorre fin troppo spesso alla figura retorica della sineddoche. Così un posacenere da muro pieno di mozziconi (Air vent, Marlie Mul) restituisce appieno l’idea dell’attesa in un luogo pubblico e un pupazzo di Winnie the Pooh con installata una telecamera ci rimanda alla nostra fragilità di bambini in un mondo in cui siamo sempre più controllati (Nicolas Ceccaldi, Untitled).
Fibre ottiche, “nuvole” immateriali dove sono raccolti i nostri dati, telecamere a circuito chiuso che riprendono i nostri spostamenti… tutto concorre a ridurre la nostra esistenza ad un insieme enorme di dati che nasconde la vera essenza della natura umana. Non riconosciamo più la fatica fisica e celebrale del lavoro che è stato necessario per arrivare a strumenti di cui, senza accorgercene, siamo diventati schiavi.
Ma c’è anche qualcuno che si spinge più in la, e ritrova nella casualità delle azioni seriali prodotte dalla macchina, la poesia che solo un essere umano può creare e identificare. È questo il lavoro di Jon Rafman nel suo “Nine Eyes of Google Street View”. Ha scandagliato l’immenso database di immagini del motore di ricerca per individuarne alcune che non hanno niente da invidiare agli scatti consapevoli di un ipotetico fotografo di chiara fama.
Sono immagini selezionate che pensavamo potessero essere frutto solo di una sensibilità squisitamente umana. La morale artistica che ci comunica è che, nonostante viviamo in un mondo in costante evoluzione tecnologica, ci sarà sempre qualcosa che ci manterrà legati al passato. La nostra capacità di analisi.
[Scritto per Pagina99we]