Dopo la Cina 1.0 di Mao e quella 2.0 di Deng è in corso di definizione la Cina 3.0. Quali sono i suoi archetipi e quali i suoi modelli. Le opinioni di diversi intellettuali su politica, economia, cultura e web sono stati raccolti in un libro e messi a confronto. Forse così l’Europa comincerà a conoscere la Cina contemporanea.
Gli intellettuali cinesi stanno ancora dibattendo sul futuro del loro paese e sul ruolo che deve avere nel mondo. Ci si domanda, oggi più che mai, se la Cina faccia bene ad andare avanti sulla via del liberismo democratico o debba invece fare un passo indietro e aggrapparsi più saldamente ai valori confuciani. E si discute, ora che la Cina è indiscutibilmente una superpotenza, se deve cercare di ridisegnare il sistema mondiale o se invece si deve adeguare all’ordine e alle istituzioni che ne hanno – pur non volendo – permesso l’ascesa.
Ce lo fanotare Mark Leonard del Consiglio europeo per le relazioni internazionali, un think thank paneuropeo nato nel 2007, che è stato artefice di un’operazione piuttosto interessante. Ha curato China 3.0, una raccolta di saggi che raccoglie le opinioni dei maggiori intellettuali cinesi contemporanei e lo ha diffuso sul web nella convinzione che l’Europa dovrebbe cominciare a pensare unitariamente a una politica economica e culturale da adottare con la Cina. Ma soprattutto che doverebbe avere un pensiero alternativo a quello degli Stati Uniti. Ma per farlo dovrebbe imparare a conoscere l’ex Impero di mezzo, senza soffermarsi su semplificazioni sterili e nell’errata convinzione che la Cina sia un blocco monolitico proiettato verso il futuro a velocità stratosferica.
A leggere il libello, quello che emerge subito è il fermento della discussione all’interno delle élite del paese. In qualche maniera un dibattito ben più stimolante di quello a cui siamo abituati nelle nostre democrazie dove, dando per scontati i principi che regolano, o meglio dovrebbero regolare, democrazia, capitalismo e ordine internazionale siamo abituati a un confronto meno acceso.
È anche vero, ci fa notare Mark Leonard già nell’introduzione, che la Cina è abituata a pensare alla storia come se fosse un susseguirsi di cicli della durata di trent’anni (sapevo sessanta ma vabbè, è comunque un multiplo e la metafora funziona). Seguendo il suo discorso, che dà anche il titolo alla raccolta, c’è la Cina 1.0 di Mao con l’economia pianificata e la rivoluzione globale (1949-1978), la Cina 2.0 di Deng con l’apertura del mercato e l’invenzione del socialismo con caratteristiche cinesi (1978-2008) e infine – dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008 – eccoci catapultati nella Cina 3.0. Quella che ancora ha i contorni indefiniti tipici delle fasi embrionali ma anche quella con cui siamo, e soprattutto saremo, costretti a relazionarci. E che gli intellettuali raggruppati in questo China 3.0 per grandi temi e posizioni contrastanti, tentano di spiegare.
Nella Cina 3.0 ci sono tre nodi fondamentali da sciogliere: la crisi del 2008, l’incapacità di ripensare il modello Deng e l’ultima decade, quella del 10 per cento di crescita, lasciata passare senza che l’occasione per introdurre le riforme di cui la Cina ha bisogno fosse colta. Così oggi, per la prima volta, gli intellettuali della Repubblica popolare non hanno modelli internazionali da seguire. L’epoca del Beijing consensus si è spenta, ma neanche l’Occidente convince più.
E la Cina 3.0 ha due archetipi. L’intero 2012 è stato caratterizzato dal contrapporsi il modello autoritario e egualitarista di Chongqing a quello liberista e democratico del Guangdong. Il primo ha perso, grazie anche alla clamorosa caduta di Bo Xilai, carismatico principino la cui storia da tabloid (non è mancato nulla: tradimenti, successo, potere, polizia corrotta, avvelenamento, intrighi internazionali e chi più ne ha più ne metta) ha appassionato l’opinione pubblica che ancora aspetta l’ultimo doloroso episodio. Ma nonostante la sua controversa figura alcune delle sue idee e quel complesso movimento politica che in Cina va sotto il nome della nuova sinistra hanno ancora diversi convinti sostenitori. E questo libro dà voce anche a loro.
Il paradosso che la Cina si trova a affrontare oggi è che più diventa forte agli occhi delle altre potenze, più il suo governo sembra indebolirsi. Come se fosse proprio il sistema su cui è costruito a non essere in grado di reggere tanta ricchezza e tanta attenzione. E mentre i più attenti sentono già gli scricchiolii è normale che il dibattito si faccia più acceso. Si cercano le soluzioni che permettano alla Repubblica popolare di non crollare ora, proprio quando alcuni economisti predicono che in vent’anni l’economia cinese sarà il doppio di quella statunitense, che il suo mercato interno sarà il più grande del mondo e che invaderà i mercati con i suoi investimenti comprando aziende, marchi e asset fondamentali dell’Occidente. Cosi la Cina discute sul suo futuro, e noi faremo bene ad ascoltarla. Perché, come vada vada, ne saremo coinvolti. O travolti.