Il verde è il nuovo rosso, direbbero alcuni. L’ideologia del Pcc ha iniziato nella fase più recente della sua vita a comprendere le cause ambientaliste, in realtà sempre marginali se non spesso assenti dal dibattito marxista-leninista, sui cui si basa la Costituzione del Partito. In Cina, in realtà, l’ambiente ha spesso giocato un ruolo di primo piano sin dai primi anni dalla fondazione della Repubblica Popolare: la campagna, con le sue risorse naturali e la vocazione storica per l’agricoltura del popolo cinese è sempre stata al centro della retorica maoista. I contadini erano i nuovi proletari, e il superamento delle vecchie gerarchie creava le basi per una nuova concezione del rapporto tra Uomo e Natura.
Per Mao questo si tradusse nella “Campagna di eliminazione dei 4 flagelli” (chusihai除四害). La direttiva, lanciata durante l’epoca del Grande Balzo in avanti tra il 1958 al 1962, fu una delle cause che portarono alla carestia pochi mesi dopo, decimando la popolazione secondo stime calcolate tra i 20 e i 45 milioni. La prima vera politica del Partito per l’ambiente consisteva quindi nell’eliminare le “piaghe” della campagna: basata su una visione piuttosto semplicistica e approssimativa della gestione del settore agricolo e dell’igiene pubblico, invitava a sterminare ratti, mosche, zanzare e passeri.
Salto in avanti nel tempo: arriva l’era delle riforme di Deng Xiaoping. La Cina inizia ad aprirsi al mondo e non importa quale mezzo venga utilizzato: il paese deve arricchirsi, modernizzarsi, arrivare al livello degli altri il prima possibile. Questa volta c’è maggiore calcolo rispetto agli anni del maoismo, e l’industria diventa il motore dell’economia. Pechino dovrà presto fare i conti con il prezzo ambientale della crescita senza limiti, frutto di un mix energetico basato su carbone e petrolio, nessuna politica per la tutela ambientale e incentivi accompagnati da diversi escamotages per raggiungere in fretta i target dei piani quinquennali (o semplicemente per trarre profitto anche da investimenti tutt’altro che performanti, come nel caso del settore immobiliare). Il risultato è una Cina che inquina come Unione Europea e Stati Uniti messi insieme (9,3 giga tonnellate di emissioni solo nel 2020, il 28% dell’output globale), con evidenti ripercussioni non solo sull’ambiente, ma anche sulla salute dei cittadini. Nel 2016 si stimava che l’80% dell’acqua sotterranea in Cina fosse inadatta al consumo umano, mentre il 40% del suolo risultava contaminato da agenti chimici. La politica allora risponde recuperando un concetto ereditato dal dibattito tra scienziati iniziato in Unione Sovietica nei tardi anni Sessanta, quello di “civiltà ecologica” (shengtai wenming生态文明): un nuovo punto di vista sul legame tra degrado ambientale e modernizzazione industriale, che auspica una nuova epoca di maggiore armonia tra ambiente ed economia.
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Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.