I numeri sono impressionanti. 200 milioni di lavoratori cinesi – un quarto del totale – sono impiegati in occupazioni flessibili: professioni della cosiddetta gig economy, raccontate dai media mainstream come un’alternativa al lavoro “tradizionale” e come capaci di garantire una certa libertà e, allo stesso tempo, un reddito stabile.
Indispensabili per rafforzare la retorica del partito, le storie di chi è riuscito a “salvarsi” grazie a lavori di questo genere spuntano con una certa frequenza. Quella pubblicata a maggio da Xinhua parla di Cao Lei: classe 1992, qualche anno fa abbandona il negozio nella provincia di Anhui e diventa rider a Suzhou per la società Meituan, una delle maggiori piattaforme del settore. Dice di esser riuscito a guadagnare uno stipendio sempre maggiore grazie alla sua capacità di pensare “in modo diverso” e di immaginare i desideri dei clienti. A Nanchino, due anni fa, diventa manager della stazione di consegna.
Il settore degli addetti alla consegna di cibo a domicilio presenta tutta una serie di elementi emblematici e, più degli altri, unisce le caratteristiche del lavoro flessibile e della gig economy. Lo scorso anno, con la chiusura di alcune fabbriche, le piattaforme di food delivery hanno dato lavoro a un gran numero di operai, ma anche laureati e colletti bianchi – i dati di Meituan riportano 336.000 nuovi rider solo nella prima metà del 2020. Uno scenario che aveva spinto il premier Li Keqiang a riconoscere l’importanza delle nuove occupazioni come strumento per “assorbire la disoccupazione”.
E quest’anno, poiché si continua a parlare di una vera e propria “era del lavoro flessibile” e le nuove professioni assicurano servizi necessari allo stile di vita delle grandi città del paese, il governo ha evidenziato il bisogno di regolarne lo sviluppo. Il riconoscimento, per ora, sembra essere limitato al solo discorso propagandistico e la domanda sorge spontanea: se la retorica snocciola i vantaggi della flessibilità, quali la capacità di sfuggire ai “rigidi vincoli di tempo e di spazio del lavoro in fabbrica”, perché chi ne è coinvolto non gode della libertà promessa ed è costretto spesso a lavorare ben oltre le otto ore giornaliere?
Come riportano le ricerche di Sun Ping, ricercatore associato all’Accademia cinese delle Scienze Sociali, che ha coniato a tal proposito il termine 粘工 niangong, “lavoro appiccicoso”, per arrivare a guadagnare un salario di circa 7.000-8.000 yuan al mese (900-1.000 euro) un rider deve lavorare all’incirca 12 ore. L’economia dei lavoretti, quindi, finisce per rispettare i tempi e i vincoli del lavoro subordinato, garantendo alle imprese, tuttavia, un costo inferiore di manodopera: di fatto, ed è qui che emerge l’arretratezza della legge cinese, il lavoratore flessibile non beneficia, al pari di quello dipendente, di ferie e copertura assicurativa – le cosiddette “cinque assicurazioni e un fondo”.
La mancanza di tutele e lo sfruttamento che ne deriva si sono accentuate con la crescita del mercato, e le contestazioni non sono mancate: se durante la crisi pandemica si è registrata una generale diminuzione delle proteste sul lavoro, la Strike Map di China Labour Bulletin riporta che i rider hanno guidato solo nello scorso anno 45 azioni collettive (erano state 10 nel 2017), mossi da decurtazioni salariali e da premi di produttività promessi e mai pagati.
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Di Vittoria Mazzieri