A lezione da Liu Xiaoyu, la mia insegnante di lingua cinese, spiego che ho due didi (弟弟 “dìdì”, fratello minore). Lei mi chiede con disinvoltura: “Avete la stessa mamma?”. Deve aver colto il mio sguardo disorientato quando ha aggiunto in inglese: “Sai, quando io parlo di didi intendo i miei cugini. Non conosco nessuno della mia età che abbia due fratelli minori”. Xiaoyu ha una trentina d’anni, vive in Thailandia con suo marito e sua figlia piccola, e ha lasciato i genitori in un villaggio della Cina settentrionale. È una dei tanti milioni di bambini e bambine nate sotto la rigida politica di controllo della natalità degli anni Ottanta, e quando le chiedo se voglia avere un’altra gravidanza alza gli occhi riflessiva e mi risponde: “Mmm, non ci ho pensato. Ma non credo, i figli costano”.
Lo scorso maggio è stato pubblicato il settimo censimento della Repubblica Popolare Cinese dal 1949. La stampa estera era in fermento per l’attesa dei risultati e si era lanciata in previsioni sul presunto trend negativo che avrebbe registrato la popolazione cinese, dopo 35 anni di politiche per il controllo della natalità. Si sarebbe dovuto trattare, secondo un rapporto del Financial Times, del primo declino demografico nella storia della Cina moderna dal 1961 – anno in cui la carestia causata dalle politiche economiche maoiste del Grande Balzo in Avanti (1958-1961) aveva raggiunto i livelli più disastrosi. Eppure, i dati ufficiali pubblicati a maggio dal National Bureau of Statistics hanno restituito un’immagine diversa.
Pur avendo intrapreso la via verso un inverno demografico, la popolazione cinese è cresciuta del 5,38% dall’ultimo censimento nel 2010. Non sono quindi mancate accuse di manipolazione dei risultati e proteste contro la scarsa trasparenza del governo, da parte di osservatori nazionali e internazionali. “La malizia di questi articoli consisteva nell’instillare l’idea che la Cina fosse in declino dal punto di vista demografico” spiega a China Files Patrizia Farina, docente di Demografia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, “perché l’associazione tra potenza e numerosità è un tema cruciale”. Il censimento, infatti, oltre a fornire gli elementi per decifrare il futuro demografico del paese, dice qualcosa anche di chi sono coloro che ne osservano le trasformazioni e quali discorsi animano il dibattito internazionale sulla Cina contemporanea. In un comunicato rilasciato l’11 maggio 2021, il commissario dell’Ufficio nazionale di statistica, Ning Jizhe, ha dichiarato: “La questione demografica è sempre stata una questione di importanza strategica”. Ciò è vero non solo perché la Cina è il paese con la popolazione più numerosa al mondo, ma anche perché esiste un ideale politico condiviso a livello internazionale che allinea forza, ricchezza e popolazione.
La pianificazione demografica è una voce prioritaria dell’agenda politica cinese sin dal 1949. Secondo Zhang Jian, professore associato della School of Government dell’Università di Pechino, “il controllo delle nascite è come un mosaico: bisogna guardare l’immagine generale per coglierlo nella sua omogeneità, ma a livello locale mostra diverse fratture [particolari]”. Parlare di un’unica pratica di controllo familiare può essere fuorviante: le politiche demografiche costituiscono uno scenario eterogeneo, sia a livello spaziale che temporale. Oltre ad essere amministrata localmente attraverso vari livelli di autorità territoriale, la politica di natalità in Cina è frutto del susseguirsi di varie misure sociali ed economiche per la pianificazione familiare, che hanno raggiunto l’acme con la politica del figlio unico negli anni Ottanta.
Questa politica demografica, che ha dominato i progetti di vita di miliardi di persone fino al 2015, ha una sua preistoria. Per realizzare gli ambiziosi progetti di modernizzazione e sviluppo economico dell’era maoista, la popolazione doveva essere sottoposta a una rigida irregimentazione. Così, già tra il 1953 e il 1979 erano state adottate misure di genitorialità pianificata, in concomitanza con i primi piani economici quinquennali. All’inizio degli anni Settanta fu lanciata la campagna “Later, longer, fewer” (“晚, 稀, 少”wǎn xī shǎo), per incoraggiare i giovani a sposarsi tardi, fare meno figli e lasciar correre più tempo possibile tra una gravidanza e l’altra. Ma fu solo con la promozione del “socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng Xiaoping, il successore di Mao, che gli imperativi di contenimento demografico si fecero più severi. I dati dell’ultimo censimento sono il risultato di tre decenni di politica del figlio unico. Inaugurata nel 1980 e interrotta solo nel 2015, questa misura di contenimento delle nascite ha plasmato la cultura familiare cinese degli ultimi decenni.
“L’aver costruito una società di figli unici ha determinato un cambiamento culturale straordinariamente importante (…) perché per tutto questo tempo si è agito contro la riproduzione. È un fatto culturale, e come tale sarà difficile da sradicare”, dice la professoressa Farina. Oltre ad aver trasformato la logica del regime familiare cinese da popolazionista a neo-malthusiana, infatti, la politica del figlio unico si è ben presto convertita in una vera e propria norma sociale. Nonostante le aberrazioni – tra le altre, aborti e sterilizzazioni coatte, infanticidi e profittevoli attività di adozioni illegali – si è sedimentata nell’humus socio-culturale cinese, realizzando un prodotto di design demografico qualitativamente selezionato, anche in base al genere.
La leadership cinese ha annunciato a inizio giugno il lancio della cosiddetta “politica dei tre figli”. Già l’apertura al secondo figlio nel 2016 aveva destato riflessioni sul fatto che la Cina stesse vivendo una fase caratterizzata dalla cosiddetta “trappola della fecondità” che vedrebbe poche generazioni in età riproduttiva fare a loro volta pochi figli. La politica dei tre figli ha suscitato poi una serie di considerazioni di carattere culturale e di accettabilità politica, oltre che di sostenibilità. Xiaoyu l’ha presa col solito pragmatismo: i figli costano quindi la scelta di una gravidanza va ponderata in base alle proprie disponibilità materiali. Secondo Patrizia Farina, “a lungo alle donne è stata attribuita la responsabilità della riproduzione, anche se poi non ne avevano la titolarità”, ovvero, erano sistematicamente escluse dai gangli del potere – quello stesso potere che dettava loro imperativi riproduttivi. Secondo l’esperta di demografia queste generazioni hanno ormai un modello familiare che è quello che hanno socializzato loro stesse, nascendo senza fratelli o sorelle…. [DIVENTA SOTTOSCRITTORE PER OTTENERE IL MINI EBOOK CINA 2035 E CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO]
Di Agnese Ranaldi