Il G20 made in China si è concluso con un documento finale dalle buonissime intenzioni, all’insegna della cooperazione e della «crescita inclusiva», pur senza delineare alcuna linea guida pratica al raggiungimento dei tanti obiettivi prefissati. Nonostante questo il G20 di Hangzhou segna una discontinuità con il passato, data la «spinta» cinese al concetto di global governance, un cardine nuovo per le vecchie potenze, a cui si dovranno abituare nel prossimo futuro. È stato infatti un G20 «alla cinese», tendente al compromesso, anticipato dalla firma sul trattato del clima proprio da Pechino e Washington. Il fatto è che il meeting pare abbia lasciato sotto il tappeto tanti problemi globali, come descritto in una vignetta del New York Times di questi giorni.Xi Jinping, l’ospite, ha spinto sui suoi tasti preferiti, ha chiamato «colleghi» i suoi interlocutori e ha ribadito le richieste cinesi per quanto riguarda la globalizzazione e la necessità di una global governance, pallino del presidente. Global governance per Pechino significa più spazio negli organismi internazionali ai paesi in via di sviluppo ed è certo che Xi non mollerà la presa. Per il resto il documento conclusivo invita a una crescita inclusiva, reale, pratica, senza per altro fornire dettagli sui metodi. La verità è che il meeting serviva fondamentalmente a due cose: a spingere per quello che già a Pechino chiamano «Hangzhou consensus», un successo organizzativo che pone la Cina al centro delle trame diplomatico-economiche mondiali e a ottenere incontri bilaterali capaci di smuovere la difficile situazione internazionale, Siria in primo luogo.
Questo secondo obiettivo si può dire non sia stato raggiunto. Sul resto si sprecano le buone parole, d’altronde la Cina ha ormai un trascorso di grandi eventi, dalle Olimpiadi all’Expo, ed è in grado di assicurare incontri di livello internazionale impeccabili dal punto di vista della forma. La sostanza non dipende certo solo da Pechino. I venti leader mondiali hanno poi concordato sul contrasto al protezionismo, ha detto Xi parlando nella conferenza stampa finale del summit, priva della sessione di domande e risposte e iniziata con oltre un’ora di ritardo. «Abbiamo deciso di sostenere il meccanismo degli scambi multilaterale e di opporci al protezionismo», ha proseguito. Il presidente cinese non ha menzionato misure specifiche che il G20 potrebbe adottare per favorire la liberalizzazione dei commerci.
Pechino – tra l’altro – pur spingendo per questi concetti è da tempo nel mirino di Usa e Ue per la violazione delle regole commerciali (su tutte quelle relativa all’acciaio) e il sostanziale blocco del suo mercato a operatori stranieri. Xi ha poi ribadito che le sole politiche fiscali e monetarie non sono più in grado di lavorare per il rilancio della crescita. «Abbiamo bisogno – ha notato – di riaccendere il motore della crescita attraverso l’innovazione e, sotto questo punto di vista, il G20 ha adottato «i principi guida» per gestire le politiche d’investimento. «È il primo schema del genere al mondo», ha aggiunto Xi.
E non è un caso che questo «schema» è arrivato proprio ad Hangzhou, la città dove è nata Alibaba. Un G20 quindi con caratteristiche cinesi, compresa la volontà di mediare, di non forzare, di trovare un’intesa di massima e lasciare poi ai rapporti bilaterali le questioni più spinose. Il G20 di Hangzhou rimarrà in ogni caso un successo organizzativo e di buone intenzioni, come sottolineato anche da Christine Lagarde, il direttore generale dell’Fmi: «Ci siamo riuniti in un contesto globale caratterizzato da enormi cambiamenti economici e tecnologici e da una crescita che è stata troppo bassa troppo a lungo e che è andata a beneficio di troppo pochi».
La prima priorità, ha dichiarato Lagarde, «è quella di fare uno sforzo coordinato per rafforzare la crescita». A livello di G20, «tutti concordano sulla necessità di utilizzare pienamente tutte le leve di policy a disposizione, ovvero la leva monetaria, quella fiscale e quella delle riforme strutturali, sia a livello individuale che collettivo».
C’è poi l’impegno a fare sì che la «crescita sia ampiamente condivisa». Infine, entro il prossimo summit dei capi di Stato e di governo del G20, previsto per il luglio 2017, l’Ocse preparerà «una lista dei paesi che non hanno fatto abbastanza progressi per raggiungere un livello soddisfacente nella messa in campo delle norme internazionali in tema di trasparenza fiscale».
L’intenzione di preparare una black list dei paradisi fiscali era stata preannunciata nella mattina di ieri da Michel Sapin, ministro francese dell’Economia e delle Finanze.
[Pubblicato su il manifesto]