C’è un detto che recita: un giapponese nasce shintoista, vive da cristiano e muore buddista. Il proverbio riassume in modo molto convincente il senso religioso dei giapponesi, che cambiano e adattano il loro credo a seconda delle età, ma anche dell’opportunità. A differenza della Corea del sud, dove le sette religiose non solo spopolano ma sono un vero problema sociale – le sette usano il lavaggio del cervello e la manipolazione, anche economica, come forma di adesione al culto – in Giappone la religiosità è molto più legata a questioni terrene. Le sette religiose legate al buddismo, per esempio, sono molto più simili a delle lobby, gruppi d’influenza che hanno espressione anche politica. L’unico culto religioso che riscosse un discreto successo in Giappone fu anche l’unico a compiere un attentato terroristico su suolo nipponico: il 20 marzo del 1995 gli adepti dell’Aum Shinrikyo organizzarono un attacco coordinato in diverse stazioni della metropolitana di Tokyo, uccidendo 14 persone con il gas sarin. L’evento scosse l’opinione pubblica e intensificò gli sforzi delle autorità nel monitoraggio delle sette religiose.
Oggi lo shintoismo è praticato dall’80 per cento dei giapponesi, ma a influenzare il dato è la tradizione. Infatti la maggior parte dei riti che si compiono, dalla nascita fino al compimento della maggiore età oppure il primo giorno dell’anno, fanno parte delle pratiche tradizionali nipponiche, sono quindi un elemento identitario che va al di là della spiritualità. Più che una religione autoctona, oggi lo shintoismo è definito una filosofia, perché non c’è un testo sacro, non ci sono fondatori, e il culto è libero, può prendere decine di forme rituali senza regole dottrinali. Ma non è sempre stato così: durante il periodo Edo e poi fino all’era Meiji, quella della grande Restaurazione e della costruzione dell’Impero giapponese, lo shinto divenne religione di stato. L’obiettivo era quello di affiancare alla costruzione del nazionalismo giapponese anche una religione che fosse simile, per certi versi, ma non uguale al confucianesimo e al buddismo. L’imperatore era ufficialmente un kami, una divinità, proprio come le altre decine di forme spirituali da venerare. E’ così che nel periodo coloniale dell’impero nipponico i templi shintoisti divennero il simbolo della conquista: a Seul, in Corea del sud, dove oggi è la Casa Blu, il palazzo presidenziale sudcoreano, durante l’occupazione giapponese era stato costruito un tempio shintoista.
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Di Giulia Pompili